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All you can eat
La metafora
del cibo per gli affamati diversi
29 agosto 2021
Il
cibo come specola del contemporaneo, tra privazione e abbondanza, nello spazio
che “reta” tra la forma e la sua consunzione (a livello di di tema, ma
soprattutto di genere e di linguaggio). È il compito di una poetessa tra le più
realiste (in senso quasi lukacsiano) dei nostri tempi, Lidia Riviello, assegna
al rituale insaziabile dell'All you can eat (questo il geniale titolo del
libro appena uscito per Aragno): la possibilità (prima che il desiderio) di
ingurgitare tutto ciò che si può, nella logica planetaria del fast food
(trasferita dall'alimentazione ai più diversi ambiti, fino alla vita culturale).
Così dai precedenti affondi degli anni Ottanta di Neon alle Sonnologie
avveniristiche dell'ottimo libro del 2016, nel nuovo Riviello porta a emersione
uno degli aspetti più eclatanti e perciò stesso (apparentemente meno riferibili
a una dimensione letteraria. Piuttosto, a visioni o rappresentazioni oscenamente
spettacolarizzate di fenomeni patologici come l'anoressia e la bulimia, o
all'eccesso edonista (magari in chiave critica rispetto all'identità
borghese,così come ne La grande abbuffata e ancora più estrema in Salò
di Pasolini, col banchetto escrementizio). Il “Nutrimento” dei versi di Riviello
ci propone in modo più intellettualmente elaborato di rivisitare anzitutto la
forma-poesia, oltre che la sua lingua (e la sua sintassi, anzi, a-sintassi:
scandita, frantumata, stringente e coerente al tempo stesso).
Ed è la stessa Riviello a spiegare, in un'intervista a Radio Tre, come il
progetto poetico sia qualcosa che si compie, ma la contempo qualcosa che si può
ripensare, continuamente: non un definirsi, ma un rilanciare e riaprire “a ciò
che resta”. E “resti” sono le parole tra gli spazi, come i rimasugli di cibo tra
i denti, o le briciole dei pavesini (dall'omonima poesia) sgranocchiati in
treno, dove un'imprecisata voce dal fondo cavo della “soma” (corpo fisico e
sociale) reclama “più controlli”. Oppure tutto ciò che non si sceglie; che si
scarta (la negazione prevale in tutta la raccolta sul tripudio di possibilità
annunciato dal titolo), in una prospettiva sull'immateriale che ne esalta il suo
contraltare biologicamente più denso e contraddittorio (il cibo nutre ma uccide,
allo stesso tempo: “nessuno mangia senza muoversi”).Non credo sia solo in
questione il Capitolacene, come scrive nella nota al testo Laura Pugno:
piuttosto l'ossessività e la ferocia del “divorare” quale compulsione mortifera,
anche nella sua negazione mistica (e perciò in tripudio). Se il cibo
letterario è stato, nei secoli, servito nelle forme estreme delle abboffate,
magari suicidarie, fino all'aberrazione cannibalica (dal fiero pasto di Ugolino
ai pranzi del sanatorio di Mann e arrivando al Bärlach bulimico di verità e
giustizia in Dürrenmatt), in Riviello il cibo è allegoria di un rodimento
geneticamente umano, a qualunque latitudine e cronologia. So organizza la
giornata, si programmano le generazioni, la coppia, la società in funzione del
cibo (leggi: della vitalità onnivora). Togli cibo, e metti coazione a
fare/esserci: torna comunque, con un conto più salato e la stessa immutata fame.
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Recensione |
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