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Prefazione a
Un vestito di niente
di Roberta Degl'Innocenti

Paolo Ruffilli
La poesia di Roberta Degl’Innocenti,
configurandosi nei modi del “discorso poetico” venuto fuori
dalle esperienze ermetiche, si è sempre più caratterizzata, col tempo, nel senso
e nei segni del ragguaglio concreto (oggetti, figure, luoghi) tipico del realismo toscano. Ma, rispetto alla vena
realistica e pratica della tradizione toscana, nella reazione
chimica del suo lievitare lirico, questa poesia ha sviluppato ragioni
speculative di specie onirica e fantastica (e, del resto, a più riprese
l’autrice si definisce come “viaggiatrice di sogni”, “prigioniera di fate”, “arlecchina di note”, “padrona e schiava
in segreto di catene”…).
Rispetto ai modelli riconosciuti, come Luzi da una parte e Montale dall’altra, si compie qui un tragitto che, prendendo le distanze tanto dalla
vena elegiaca dell’uno quanto dalla polpa di natura
esistenziale dell’altro, porta a quella che definirei una sorta di cronaca magico-rituale delle cose e del mondo, giunta alla sistemazione delle immagini dopo essere passata al vaglio del “terzo occhio”
che vuole tentare la pronuncia della “meraviglia
celeste”.
E non a caso, nella poesia preliminare che porta il titolo stesso della
raccolta, la nostra “naufraga del pensiero” cerca di indossare “un abito colore della pioggia”, con “squadre d’elfi
guerrieri in fila” a pettinarle “gli occhi di sorgente”.
La condizione letteraria è quella, più generale, del passaggio della poesia al “discorso
poetico”, con un allentamento delle strutture sintattiche
e con una minore rarefazione lessicale, insomma
secondo uno sviluppo più discorsivo (“La prima arma è | questa penna vigile, astuta al movimento”) nella direzione della relazione metaforica che viene a soppiantare gradualmente la rivelazione
analogica.
Con in più, rispetto alle prove precedenti, una moltiplicazione di immagini luminose e
scintillanti tenute insieme coerentemente da una sotterranea corrente musicale (“Gente di sogno…
| pirati del pensiero o amanti solitari. | Siamo i cantori…”; “Io cantavo le note che la mente nasconde…”; “Ascolto le note di un violino perso…”; “Pallida luna il canto, coriandolo di luce…”).
La poesia di Roberta Degl’Innocenti è
commisurata a regole precise, a canoni addirittura classici.
Limpida, trasparente, lucidissima, sul piano
della forma; ma densa e avviluppata in improvvisi nodi drammatici, quanto a sostanza (“Respiro aria in odore di tempesta… In pensiero limpido pianto erba maligna”). Anche se alla fine la
ricomposizione delle forze, sia pure attraverso spasmi e
singulti, fa dichiarare: “Respiro aria in sinfonia di
tramonto”.
Dove, a vincere, è la pace. In un bilanciamento, improvviso, di paura e desiderio (binomio o aporia cari all’autrice di questi versi).
La fuga del tempo, il defilarsi delle occasioni,
la corsa in avanti e, in fondo, il dissolversi
graduale della vita non hanno partita vinta in questa
poesia, che appare consegnata alla consapevolezza
dell’incontro paradossale tra l’eterno e il tempo, tra l’infinito e il finito,
su una linea di confine che la morte non sembra in grado di violare. Ed ecco, allora,
l’estremo baluardo, le mura che presidiano la scena del mondo serbandola nella sua dimensione
universale senza fine. Sono certi luoghi superiori, quasi specchio del miracolo,
come Piazza del Campo (“una festa di sussulti”, piena di dame e
cavalieri) o Piazza della Signoria (“pietra sagomata in
fulgore di luna”). Sono certi oggetti quotidiani, fatti amuleti e talismani dall’uso stesso della vita,
come un aquilone o un foglio o uno specchio o un
fiore (con una predilezione dichiarata, anche se
magari inconsapevolmente, per le rose). Sono certe
figure che si muovono tra le pieghe delle pagine, entrando e uscendo di continuo dalla (per la) vita: “donne
in amore, donne in poesia” e i personaggi, appunto femminili, di un altro libro dell’autrice, i
racconti di Donne in fuga, “donne lungo il sentiero di parole, | sorrisi che intrigano la vita”.
Muovendo da una profonda esigenza interiore di comunicare agli altri la propria visione del mondo e delle cose, l’autrice costruisce i suoi
rigorosi quadri, mirando a rappresentare il senso
fascinoso della vita senza per questo rinunciare ad
isolare i tagli, le fessure, gli scollamenti in cui si
manifesta il vuoto che avvolge e insidia quella stessa vita. È l’aspetto originale di questa
coincidenza degli opposti che fa sprigionare dalle sue
limate superfici un’ansia assoluta di complicità e di
partecipazione al mondo e alla sorte degli uomini.
“Sete d’ansia”, viene chiamata nella poesia
omonima, “quel brivido d’amore | che sfiorava la pelle”, nel riferimento ad un ricordo del
passato: “Era sete d’ansia, mentre i pensieri |
spogliavano la noia”.
L’effetto è una tenerezza espressa come eleganza di strutture, delicatezza di modi e di toni,
flessibilità melodica, leggerezza di immagini. Come
attraverso un vetro, però. E, dunque, non in cedimenti o in morbidezze formali. Ma in una purezza
cristallina che, pur partecipando, ha già fissato un suo distacco dal sentimento delle cose.
Un vestito di niente si dichiara come il libro esemplare di Roberta Degl’Innocenti, il luogo di coagulo delle ragioni e dei modi al punto di
essere il documento privilegiato che di sé e del proprio mondo l’autrice è disposta ad esibire. Un libro
in cui ha la sua parte anche la ragione (“La parola
mi aspetta oltre il confine | d’un tempo amaro che
si fa ragione”) e in cui tutti gli aspetti della vita
vengono a partecipare, nella gioia e nel dolore. Un
libro capace di tenere il filo delle opposte
condizioni e di praticare la mescolanza (“un riso misto al
pianto”), intrecciando “argento e nero”, “spine e oro”.
In una consapevolezza che è riassunta, in modo
fulminante,in questi versi:
Leggerezza di piuma le parole,
oppure otri pesanti, muscoli forti
a illuminare il buio. È forse blasfemo
ciò che scrivo? Non so dirlo. In questa
solitudine di pietra tutto è permesso,
anche la bestemmia. Eppure bevo
sempre la rugiada che luccica il
geranio oltre il balcone.
Voglia di rabbia e d’infinito
sopra l’angoscia cieca della sera.
Voglia di rose sopra il letto disfatto
e petali ai capelli, sguardo di giada,
incanto di serpente.
Padrona e schiava in segreto di catene.
All’insegna, dunque, della leggerezza anche nella bestemmia. E senza rinunciare a niente, né alla rabbia né all’infinito. Padrona e schiava,
insieme, di se stessa.
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