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Senz'alfabeto
Il ‘sovescio’ della medaglia:
Senz’alfabeto di Anna Maria Guidi
Il verso come strategia di
ritorno, percorso incerto nel caos dell’umano. In Senz’alfabeto, uscito
di recente per i tipi di Polistampa, Anna Maria Guidi si muove proprio su questa
linea e dà vita a un testo proteiforme, pulsante: materia nell’immanenza del
caos. Una pretesa già rimarcata dal titolo, dove l’Io poetante rinuncia da
subito a una gerarchia di parole. Se un libro, nella sua accezione tradizionale,
istituisce un sistema, la silloge dell’autrice lo rifugge, in nome di una
parole sans langue.
Chi scrive attua una vera e
propria epoché, quasi a voler prendere le distanze dalla realtà in cui lo
scriba – volendo citare il pensiero di Mario Luzi – porta avanti l’incanto del
poetare. Ogni componimento è climax, un’ascesa continua al supero della
parola e del senso: un poetare a pioggia, volutamente in frantumi. La
Singolar tenzone, come recita il titolo di uno dei componimenti, è lasciata
in sospeso dalla penna autorale, proprio in attesa di un alfabeto ‘altro’,
pronto a significarla.
Le poesie sono flussi: slanci
panici dalle atmosfere alcionie. Le eco dannunziane sono ravvisabili sin dalla
prima sezione, per proseguire lungo tutto il libro e rivelare un ipotesto in
fermento, sempre all’attivo («s’affretta il colubro/ al fodero petroso della
tana/ corto fiutando il fiato», si legge in Il fiato e il fiuto).
Quale cerchio magico, ogni verso traccia il solco fra sogno e reale, procede in
modo olografico sino a sondarne gli aspetti reconditi, le alterità proibite. A
tale altezza, erbario e bestiario istituiscono veri e propri universi analogici:
animali e piante si fanno famuli, psicopompi sui generis, pronti a
guidare il lettore in una mercuriale poeticità. Primario, altresì, risulta il
ruolo svolto dalle parole: quasi il viatico per un incerto tragitto. Anna Maria
Guidi sfrutta appieno la polisemia di ciascun vocabolo, la bifrontalità
scaturita da un’aggiunta o sottrazione di lettere. Il titolo della silloge, in
tal caso, può e deve farsi chiave ermeneutica: chi scrive «senz’alfabeto»
infrange un sistema di leggi e manipola il codice invisibile del linguaggio. Le
parentetiche, poste da subito a inizio del libro, rivelano quest’intrinseca
dualità, un vero e proprio manicheismo della grafia: «(bi)sogno» e «ver(b)o»;
«t(r)afrugata» e «c(r)uore»; «(con)volare» e «pen(s)are».
Sono spie che, per quanto rare, accompagnano il progredire del testo, creando
uno spartito a sé stante, pretestuale e antecedente al libro stesso. Le
creature, vegetali e animali, agiscono a loro volta su questo passaggio: si
pensi, a tal proposito, alla «aspidica erezione», in cui traspaiono echi
del XXV canto dell’Inferno; oppure, al «gatto bianco e nero/ che dalla
morte esterrefatto guarda/ con occhi di balocco invetriati», dal sapore
baudelairiano.
Immagini, queste, pronte a
convergere verso un unico punto: il ritorno; tema implicito a ogni lirica della
silloge, eppur messo a tacere sin da principio: «sovescio l’acrobatico basto
della mente/ in nervidi giunchi di parole/ per dire il (bi)sogno/ dove il
silenzio parla/ il dissennato ver(b)o dell’imprimizio vère». Ed è allora
che la ricerca ha inizio, che l’oeil poetante si sposta su più piani
focali, traversa il caos e le sue dimensioni. Ulisse e Arianna sono le
principali controfigure di questo tragitto: l’ultima, in particolare, diviene a
suo modo sdoppiamento autorale; un rispecchiarsi suggerito dalla stessa grafia (AriAnna).
Il nostoi, già postulato da Ossificata arsura («perché ho
rinnegato/ e ora rimpiango/ l’amniotica sciara del pianto»), prosegue nella
poesia succitata, sintomo d’incontenibile attesa: «e ancora indugia e imbigia
AriAnna/ covando come un feto calcinato/ quella ferina fame mai mangiata/ per
non trasgredire morso a doglia/ la paura e la voglia/ di partorire il limbo
della soglia»). Ritorno al materno, dunque: una pulsione tradita dai
componimenti a venire, pervasi da un’orfanità quasi subdola, verso una madre che
è salvezza e entropia.
Chi scrive «senz’alfabeto»,
in fondo, è paragonabile ad un bambino: la sua grafia è poetica lallazione, la
litania di «quest’egra orfanitudine» (Consanguinetà). Il grembo,
l’alveo in cui la vita comincia, è il ricorsivo punto d’approdo; mentre il
‘nido’, di pascoliana memoria, risponde ora a un bisogno di protezione: al
rifugio in cui l’io poetante si annida, quale ovulo pronto a essere fecondato («annudata
m’annido e mi dico/ nell’amplesso incarnale del mondo»). Un’envoi dal
mondo, questo, che ha come fine ultimo l’agnizione, il congiungersi di due
realtà convergenti, venute a fronteggiarsi quasi per caso: «e rientro alfine/
nel ‘me’ primizio d’ingorda monella/ […] l’iniziatica discesa
nell’esistere/ d’ustione in algore/ di croce in prece/ di passo in passione/ di
stazione in stagione»). La regressione, auspicata da tempo, chiude il libro
su un’insolita Via Crucis. Quel «basto della mente», evocato in
esergo, viene come disseppellito, letto e sfogliato. È il combaciare di
umano e poeta; un lògos primigenio che non necessita di alfabeti: «a
corpo libero assumo la vertigine/ della nientitudine plenaria/ che illimine
crepuscola e inalbica/ nell’imprimizio ver(s)o che in tace il sogno dice/
senz’alfabeto».
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Recensione |
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