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Ombríe

Un poeta che scrive come respira

Non sono trentina di nascita e quindi soffro di un misto di imbarazzo e di timore reverenziale nei confronti di un dialetto che non è per me lingua madre, anche se da bambina mi ci ero cimentata per essere accolta nella cerchia dei piccoli preziosi amici di cortile. Dirò, però, con schiettezza che talvolta sono rimasta perplessa se non infastidita da un uso improprio del dialetto, vòlto al mero recupero di un passato arcadico vagheggiato con toni nostalgici e retorici. Il dialetto – ha scritto bene Renzo Fracalossi – è quella lingua profonda che ci abita e colora la nostra storia… capace di far riaffiorare le nostre radici sepolte. Perciò va rispettato e usato come ogni lingua nel suo straordinario potere di nominare le cose e renderle nostre, facendo risuonare – e qui Lilia Slomp s’è rivelata ancora una volta un’autentica maestra – in ogni parola il mistero che porta con sé. Di questo, accanto al nostro Renzo Fracalossi, hanno dato testimonianza gli autorevoli Franco Loi e Fernando Bandini, tanto per citare i più vicini a noi.

Per questo in postfazione Paolo Ruffilli lo definisce lingua madre per Lilia, che lo usa per i suoi “affondi del cuore” come un respiro.

A recensire questo libro mi ha in fine sostenuto la convinzione che, dove non fossi riuscita ad entrare nelle sfumature e nelle pieghe del dialetto, mi avrebbe soccorso la stessa poesia. Poesia capace, quando è tale, di trasmettere le giuste vibrazioni insieme alla densità e a quel quid di misterioso e sacro che appartiene all’anima profonda di ogni uomo e che la nostra poeta sa far affiorare con naturalezza, perché lo custodisce e lo coltiva da tempo dentro di sé.

Mi sono perciò lasciata condurre e sedurre dallo sguardo di Lilia Slomp dentro questo suo nuovo percorso poetico ed esperienziale. Spero di averne còlto almeno l’intenzione, se non il tessuto in trama e ordito.

In maniera certamente rapsodica e schematica, data l’impossibilità di fare un’analisi dei testi, mi limiterò ad alcune personali riflessioni.

Non chiede poco questa poesia: ci chiede, infatti, di cogliere la parola con responsabilità. Non chiede poco – è vero – ma ci dispone, purché acconsentiamo, ad addentrarci su una strada in grado di restituirci quel mondo invisibile che abbiamo smarrito e però appartiene per natura e diritto a ciascuno di noi. Ci dispone, inoltre, a mantenerci vigili nei confronti del quotidiano – che è parte della nostra vita e dunque anche della morte – del nostro sentire, del nostro gioire, del nostro soffrire. Poesia esigente, dunque, ma capace di farsi dono.

–“Poeta degli orti, Lilia, che coltivi | le rime e le rose, contami della ragazza Lucia, dai capelli | di fiaba…(così Ermellino Mazzoleni in un bel testo a lei dedicato in “Aspettami al quinto punto cardinale”), versi che la fotografano perfettamente e che si inchiodano alla memoria una volta letti: io penso a Lilia e la penso poeta degli orti…che coltiva le rime e le rose, dove orto e coltivazione (orior e colo) richiamano nascita e cultura. Sappiamo bene che talvolta la nascita può essere casuale, ma la crescita di una pianta, come quella di un rapporto personale, non può che essere frutto di paziente coltivazione…

Il mondo poetico di Lilia Slomp torna in Ombríe ulteriormente maturato e vorrei dire rasserenato da nuova consapevolezza, che mi permetterei di riassumere così: il buio nasconde, l’oscurità rivela. Le ombrìe sono un percorso di disvelamento o rivelazione in cui la nostra si riserva però “il diritto all’opacità” (così ben teorizzato da Edouard Glissant). Dice bene Elio Fox in prefazione che Lilia Slomp non s’è mai posta il problema di farsi accessibile, pur sperando di diventarlo. E Ermellino Mazzoleni in Leggenda nel colloquio in prefazione conferma:“Ti confessi di fronte ai sogni e alle ossessioni… Ti denudi per essere come sei… Ti apri all’altro, Lilia, e ti rinchiudi in te, tesa a vivere e a portare alla luce un’esistenza sotterranea”…

S’è infatti aperta una pagina nuova nella vita personale e familiare di Lilia: le due nuove vite, figlie delle figlie (dai nomi simbolici Bianca e Alma) lasciano meno spazio ai bilanci e al destràni (cfr. Come gocce di vetrata”), hanno sollecitato tutte le sue energie, anche quella primigenia della maternità, a risvegliarsi.

A conferma segnalerei le sottolineature di Paolo Ruffilli circa “il tremito interiore che batte lieve o forte” in ogni parte; “il linguaggio forte e vaporoso nei suoi colori e nelle presenze immaginose”; la capacità di conservare ed esprimere l’anelito da bambino “la favola strana della fantasia” che è capacità di farsi parte stessa della vita. Qualcosa che mi ha fatto pensare alla bella espressione del poeta friulano Pierluigi Cappello, (vincitore del Viareggio nel 2010) “trimant al vivi” tremando al vivere, perché al vivere appartiene l’esperienza amorosa in ogni sua forma.

Vorrei ancora ribadire l’originalità che ho còlto in Lilia Slomp già nei suoi due precedenti libri, forse non segnalata come meritava, e che qui trovo marcata.

M’è parsa, la sua, poesia di natura religiosa.

Religiosa non in senso confessionale, naturalmente, né tantomeno devozionale, ma etimologico. Poesia di ponte, di legame compenetrante e consustanziale tra uomini, creature, cose nel ventre della natura. Qui s’incontrano con respiri diversi, battiti forti, pulsioni complesse, segnali di vita sommersa, ignota, che esige di essere evocata, portata alla luce.

Religiosa, dicevo: perché in essa si coglie il senso di una nostra povertà umana, di una nostra debolezza, di una nostra incompletezza. Il senso che una comunione perfetta sia impossibile a causa delle zone impenetrabili, incomunicabili che rimangono in ciascuno di noi (e torniamo, dunque, all’opacità rivendicata da Glissant e, forse inconsapevolmente, anche da Lilia). Come se ci toccassimo nella nebbia, senza mai vederci fino in fondo, senza mai penetrare l’anima dell’altro, la sua unicità, e farla nostra.

Ma c’è, di converso, una sottile, tenera, tenace capacità–volontà (frutto di un paziente muto intensissimo ricercato dia–logare ) di comunicare con quelli che sono nell’al di là con una intimità prima impossibile. Il papà, il fratello Ezio, la mamma, la nonna, l’amica Lucia Mazzoleni…: senza il limite della corporeità, senza le divisioni del pensiero nel modo di vivere e di sentire che ci tormentano nella quotidianità del vivere. E questa comunione, sia pure nel dolore a tratti riaffiorante, ma elaborato fino a diventare nostalgia diventa una sinfonia, un tutt’uno con il respiro, con il passo, l’endecasillabo.

Quante saràle ancor le tonde | ai labirinti stròvi del zervèl | prima de’ntènder ciar el tradiment | de l’àrbol ondezant sora la canta | de tut el tribolar de la me zènt. Tonde, p.20.

Gh’è ’n girasol che ’l pìndola stranì | su la stropaia fonda de l’angóssa. | E penso a ti, Lucia, ombra de zald | girandola de ale che le sponze. | El fùssa cossì ciar el to ricordo | en sto silenzi de malinconia | sbotezà dal sangiót de na campana | che ragiona la vita co’ la mort. | Ancora non savén se le farfale | sen noi spegiadi dentro na striarìa | oltra le raze de orolòi trucadi | o se l’è lore quei che è za nà via. A Lucia, p.24

Me spègio come ’n pòpo ’ntéi to òci | che i gà robà al mar el so color | senza parlar te digo: te vòi bèn || te ’nvènto ’ntrà le nùgole ’l seren | la nòt dei pradi alti, quel slusór | de stéla che te nini sui ginòci. Le to carezze, p.28

Ne spizzega le vene quel destràni | che ’l gà ’l saór de la malinconia. | Ancòi l’è squasi grop enté la gola | enté sto mondo ormai senza misura. | E basterìa na s’cianta de paura | per far cantar de nòf quele sortive | che pianze tèmpi ancora da ninar. | Se sentirìa dentro la strovèra | la vòia de tegnirse ancor per man, | de stofegar la prèssa, quela fam | stampade dentro i òci de la zènt. | Destràni l’è na maschera de ’nsògni, | la lagrima pianzuda da ’n pierrot, | na scortaròla verso quei doman | che se destira al pass de ’n orolòi | co’ le raze ’mpiantade ’nté ’n sangiót. Destràni, p.33

La poesia – si sa – porta ad essere in uno stato di crisi permanente, impone di scegliere dei percorsi con la consapevolezza che sempre qualcosa va perduto:

Ma l’importante è la postura verso il futuro, una forma di resistenza della mente (alla banalità e al qualunquismo…). Cosa che la nostra ha ben capito e fatta sua.

“Come gocce di vetrata” si era configurata come un bilancio Rivoglio le picchiate sbalordite | a fili ingarbugliati dentro il vento | Ridatemi un momento, una viola, | la pagina bianca del diario ( 2–4–1945) in cui la volontà era sempre accesa, ma il cuore ancora dolorante per una ferita antica (p. 69 Del tempo del morire; p.79 Gelo)

Eppure nessun atteggiamento consolatorio compare nella poesia, che si fa anche poetica, della nostra. Piuttosto una pietas diffusa e convinta nell’affermare la dignità della donna, la sua oblatività, la sua capacità di attendere e di amare oltre e nonostante le violenze subite.

Anche a questo serve la parola di Lilia Slomp che però, a differenza di qualche critico, non sento né semplice né precisa –, a prendere le distanze dal dolore (le“spine pungenti a noi rimaste in gola” avrebbe detto il già citato Fernando Bandini), dopo averlo stanato, scavato, artigliato; serve a dare ordine a quel magma incandescente di ricordi teneri e soffusi, taglienti e piagati, a seconda dei momenti e dell’angolatura di inquadramento.

Se qualcuno capisse | quanto amo il compratore esigente | che sa la dolcezza, il succo e il divenire. | Se qualcuno soltanto mi vedesse....così diversa dagli altri frutti...” (“Se qualcuno” da Leggenda p.45)

Ma tale consapevolezza non era riuscita a neutralizzare del tutto l’amarezza viscerale, soffocata, taciuta di una carezza mancata. “Che mi perseguita è l’infelicità...” (da Come gocce di vetrata “Pifferi di fiaba”)

Ora ce l’ha fatta – credo – grazie al percorso intrapreso con la nuova creatura Ombrie – cfr il testo Quel dì p.51 e, forse, sostenuta dalla trepida attesa di ciapar per man le nòve pòpe | e nar da regine sì lontan | come tonda de ’nsògni sora ’n fior…

Recensione
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