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Il fine del mondo

In un convegno di studi, avente per tema la Riunione degli scienziati italiani che si tenne a Lucca nel 1843, il professor Paolo Emilio Tomei, illustre botanico, impiegò parte del tempo concesso al suo intervento per fare un’affermazione ovvia ma piena di senso, sostenendo che, sebbene la specie umana esista da alcune decine di migliaia di anni, non esistette prima per milioni e non è affatto garantito, se non dalla presunzione che essa stessa si è finta, che debba esistere nei secoli a venire; del resto, pure San Pietro, nella Prima lettera, parla della fine del mondo, dicendo che «ci saranno nuovi veri cieli e nuove vere terre». Per venire così al romanzo di Micheli, quando si parla di ‘fine del mondo’ si intende riferirsi ad una fine del mondo umano. Tale ipotetica fine risulterà, comunque, da una serie di eventi che hanno a che fare proprio con la volontà umana, come accade anche nel romanzo Il fine del mondo. Questo testo non ha lo svolgimento tipico delle narrazioni che ci si aspetta di poter acquistare in qualsiasi momento e pressoché ovunque; si dipana attraverso alcuni itinerari umani, i quali procedono su vie all’apparenza indipendenti per congiungersi nei capitoli finali. Quello che il racconto porta in luce sono sentimenti, sensazioni, modi di vedere, cammini spirituali. Le stesse esperienze, di cui il libro tratta ed i personaggi vivono, sono sempre filtrate dalla ragione o dal cuore dell’uomo. Tra altri, legati soprattutto al taoismo, affiorano riferimenti ai testi biblici, che l’autore interpreta in maniera per nulla confessionale. Le descrizioni ambientali sono sempre pervase dalle percezioni delle persone che vi appaiono, così da riuscirne molto suggestive. Il linguaggio di Micheli non è consueto, le scelte linguistiche evadono sempre il lessico di uso comune, attingendo alle fonti dello stile classico.

Don Milani afferma che la differenza tra un padrone ed un operaio consiste nel fatto che il primo dispone di trecento vocaboli e l’altro di mille, disparità culturale che determina quella economica. A cinquant’anni di distanza dall’esperimento della Scuola di Barbiana, la situazione è mutata: entrambi, ad andarli a ritrovare in un più ampio arco di categorie professionali e stratificazioni sociali, vedono ridotte ai minimi termini le proprie capacità linguistiche, tant’è che riescono ad intendersi o a litigare con meno di duecentocinquanta parole, inquinate peraltro da solecismi alloglotti che sostituiscono intere frasi della splendida, precisa, ricchissima lingua italiana. Il linguaggio letterario di Micheli, invece, è studiato, la frase è costruita, così da offrire la certezza di una profonda conoscenza delle potenzialità espressive che la ricchezza della lingua consente. Niente a che vedere con l’abbondantissima produzione dei romanzieri che si trovano, oggi, sul mercato. L’articolazione di pensiero che si esprime nella vasta struttura dei periodi è insolita, quando paragonata alle consuetudini attuali, anche in ambito prettamente letterario. Lo stile di scrittura richiede impegno e attenzione al lettore, sia sul piano formale che su quello dei contenuti.

Il romanzo ha anche un tono di denuncia: «Non vi è bastato, maledetti, avvelenarci l’acqua e il cibo? Vorreste, forse, strapparci anche gli occhi, cosicché non dobbiamo vedere la malattia consumare i nostri figli? Vorreste strapparci le orecchie perché non abbiamo da udire i loro pianti? Che la vostra unica anima vi strazi le carni così come voi fate con le nostre!». È la denuncia degli interventi che stanno distruggendo l’habitat umano sulla terra.

Più avanti troviamo questo passo: «Le nostre azioni non possono fondarsi in altro che non sia ciò che conosciamo. Tuttavia, se le azioni dell’umanità sono rovinate a valle del corso della storia verso un destino di estinzione che parrebbe senza via di scampo, ciò basterà a convincerci che le fonti della conoscenza alle quali abbiamo finora creduto di poterci abbeverare sono infette e nocive. La conoscenza che, da ora in poi, guiderà le nostre scelte sarà diversa da quella che si è propagata in miriadi di intelletti, tra i quali non ne sono mancati di limpidi e geniali, alla stregua di un’epidemia mortifera; la nostra sarà la conoscenza del cuore e dell’anima, quella che ci rende felici di ciò che siamo e ci sprona a desiderarci migliori.»

È qua evidente il forte lascito di Sant’Agostino – con tutta la tradizione che da lui si alimenta: quella inventiva, piuttosto che non la razionale, tra quante caratterizzano tutta la storia del pensiero umano –, per non tralasciare Malebranche e Pascal, nonché la teologia del cuore dell’Oriente cristiano. La tesi che il romanzo finisce, dunque, per affermare è quella secondo la quale il mondo potrà cambiare soltanto laddove torni all’autenticità dell’amore, facendo centro su qualcos’altro che non sia il diabolico io.

Recensione
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