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Genesis
Fiaba della guerra e della
pace 1
C’era una volta, nel
principio dei principi,
l’Essere (almeno così si
racconta)
senza macchia di spazio e
di tempo;
poi qualcuno ch’era un po’
filosofo
disse invece che in
principio era il Verbo,
il Pensiero che pensa se
stesso;
ma infine quasi tutti
d’accordo
lo chiamarono il Motore
Immobile
perché solo pensando Se
Stesso
e stando ben fermo fece il
mondo,
il quale invece, com’è
noto da gran tempo,
non fa che muoversi
continuamente
in qua e in là, anche se
si ignora
il perché di tutto questo
movimento.
Qualcuno però cui non
piaceva
tutto questo egoismo di
Dio
che pensa soltanto se
stesso
sostenne che invece era
pieno
d’una sostanza fino allora
sconosciuta
che per non sbagliare
chiamò Amore;
disse anche che Dio fu
costretto
a fare il mondo per darne
almeno un poco
a qualcun altro, poiché di
quella roba
era pieno come un uovo e
certamente
non poteva non essere
stufo
di tenersela tutta per Sé;
naturalmente però ci fu
anche
chi per invidia o per
malignità
insinuò ch’Egli sì, era
stufo,
ma di amare soltanto se
stesso. 2
Cosa sia veramente il buon
Dio
resta insomma ancora da
chiarire,
ma un fatto incontestabile
è che dopo
aver creato al di fuori di
sé
alcune cose troppo
concettose
per il nostro sempliciotto
comprendonio
quali per esempio Spazio e
Tempo,
accese il fuoco
d’artifizio del Big Bang,
che come è noto dette
origine al cosmo,
e su un pianeta che aveva
nome Terra
mise il cielo e le stelle,
i mari e i monti,
e tutti gli accessori che
servivano
al Suo grande disegno di
creare
un omino piccolissimo ma
fatto
press’a poco a Sua
immagine e somiglianza,
quindi con un’anima buona
ma anche con un mucchio di
carne
che gli stava tenacemente
attaccata,
e qui pare siano sorti
molti guai.
A questo porcellino
senz’ali
ebbe infatti l’imprudenza
di donare
il Suo Amore affinché lo
ringraziasse
ed onorasse ad ogni pie’
sospinto
come il Padre di tutte le
cose
e per permettergli di
farlo agevolmente
lo mise gratis perfino in
un Giardino
così pieno di delizie che
i posteri,
da quando ne furono
estromessi
con grande vergogna e
dolore
a causa d’un peccato di
superbia,
rimpiangono ancora a calde
lacrime
come indimenticabile Eden.
Dio invece, dopo aver
lavorato
sei giorni interi per
creare il mondo,
vide d’aver fatto cosa
buona
e se ne andò a riposare
contento,
ma di Lui non si seppe più
niente. 3
Nell’era dunque della
vecchia Terra,
che tutti i bambini dei
pianeti
della nostra galassia
hanno studiato
diligentemente anche a
scuola
come “Età Felice
dell’Eden”,
esistevano soltanto esseri
buoni,
femmine timorate di Dio
che partorivano senza
dolore
e vivevano contente coi
compagni;
tutti insieme
ringraziavano il Signore
e vivevano in grande
armonia
con le buone creature
dell’Eden
che gli erano state
affidate.
Ma un giorno la Terra andò
incontro
a un disastroso evento
stellare
che tramutò alcuni esseri
buoni
in orridi bipedi che
scesero
dagli alberi d’una quieta
foresta
con una nuova scimmiesca
invenzione:
cominciarono a scheggiare
pietre aguzze
per potersi facilmente
scannare,
poi presero con foga a
moltiplicarsi
per potersi scannare in
maggior numero
e con maggiore volume di
sangue
con armi sempre più
potenti,
sterminando in un pugno di
secoli
tutti gli esseri buoni ed
estinguendo
ogni vita vegetale e
animale
su quel povero pianeta che
una volta
era verde d’ogni erba ed
albero
ed oggi viaggia spogliato
di tutto
come nave fantasma dello
Spazio
verso mete oscure e
disperate. 4
Ma nel terzo millennio
dopo Cristo
(sapete, quel Tale inviato
inutilmente a fermare
l’ecatombe
e messo immediatamente in
croce)
un manipolo di esseri
buoni
riuscì fortunosamente a
salvarsi
lanciandosi con una
astronave
su un pianeta distante
anni-luce
e registrato sulle mappe
cosmiche
col nome gentile di Niobe,
per poter generare in pace
e amore
una nuova umanità
extraterrestre
che fosse più gradita al
buon Dio
di quella miseramente
fallita.
Ebbene, noi siamo i
discendenti
di quegli antichi profughi
approdati
or sono mille anni sul
tranquillo
pianeta Niobe portando via
con sé
saggiamente solo sane
tecnologie
timorate di Dio, fra tutte
quelle
disordinatamente inventate
dalla scienza pervertita
della Terra
che per le menti esaltate
di allora
eran solo strumento
sanguinario
di peccato, di rovina, e
di morte.
Anche le nostre ave,
trapiantate
su questo nostro Pianeta
felice
tutte molto timorate di
Dio,
crebbero figli timorati di
Dio
che laboriosi operarono il
Bene,
rinacquero i campi ed i
boschi
popolati di docili animali
contenti di lambirci le
mani,
ed anche i mari si
colmarono subito
di gentili qualità di
pesci
lieti di nutrirci, vedendo
che tutti onoravano il
buon Dio
in ogni loro atto e
pensiero. 5
Anche le scienze onorarono
Dio,
e gli astronomi del nostro
pianeta
per devozione, ma anche
per trarne
qualche utile insegnamento
morale,
si misero a studiare il
brutto morbo
che aveva colpito la Terra
dalla quale eran fuggiti i
nostri avi
prima che il deserto la
invadesse
e prima che venissero
uccisi;
così integrando reperti
archeologici
e dettagliate osservazioni
telescopiche
dei crateri dell’infelice
pianeta
ridotto ormai ad una luna
fantasma,
si poté ricostruire
esattamente
la causa di quel primo
disastroso
tentativo di Umanità sulla
Terra,
accertando ch’essa aveva
subito
il cozzo fatale con un
Astro
di natura maligna che
vagava
per i mondi infiniti del
cosmo
seminando le uova della
Morte
sui disgraziati pianeti
che incontrava.
Ma un mistero rimase
insoluto,
perché l’esame telescopico
accurato
di quell’enorme spianata
di deserto
che si poteva vedere sulla
Terra
lasciava stranamente
riconoscere
una bizzarra macula scura
circondata da alte
montagne:
se questa fosse stata una
foresta
(e la cosa fu molto
dibattuta)
forse avrebbe potuto per
miracolo
non esser pietrificata ma
verde
e nascondere anche i
discendenti
d’un uomo buono scampato
al massacro
e rifugiato in quella
terra di nessuno
per ricrearvi al sicuro un
nuovo Eden.
Questo è il dubbio che da
anni ci tormenta
finché il nostro
Parlamento non ratifichi
un’adeguata spedizione
esplorativa
di un’astronave sulla
vecchia Terra,
che sia capace di portare
in salvo
nella nostra civiltà i
sopravvissuti,
ammesso ch’essi abbiano
gran voglia
d’abbandonare la vita
primitiva
per un’altra rischiosa
civiltà. 6
Studiando inoltre i resti
delle ossa
di quegli orridi bipedi di
ominidi
che i transfughi avevano
raccolto
prima di lasciare la Terra
per studiarne le tare
ereditate
dal contatto col terribile
Astro,
gli astronomi dovettero
perplessi
classificarli pur con
molta prudenza
come appartenenti ai primi
ominidi
comparsi sulla Terra con
il nome
di Homo Erectus,
facilmente distinguibili
dalle scimmie antropomorfe
attuali
per la loro scarsissima
moralità
e la modesta dotazione
d’intelligenza;
gli astronomi naturalmente
speravano
che nel frattempo i bruti
a poco a poco
si fossero evoluti verso
il Bene
per selezione naturale
migliorando
anche il loro quoziente
intellettivo,
come infatti era avvenuto
pei gorilla
secondo i vecchi
insegnamenti di Darwin;
ma sulla base dei reperti
storici
e più precise datazioni
col carbonio
dovettero effettivamente
riconoscere
ch’eran molto più assetati
di sangue
dei loro animaleschi ma
innocui
precursori di prima
creazione:
uccidevano tutti, anche i
fratelli,
e neppure una parola
d’amore
offerta a braccia aperte
li fermava;
chi si avvicinava a loro
inerme
per abbracciarli o con un
pane per sfamarli
veniva crocifisso come
spia
o gli tagliavano la gola
come a un porco.
Allora gli astronomi
concordi
dissero che doveva
sicuramente
trattarsi d’una specie
sconosciuta
ultima nata, estremamente
sanguinaria,
cui dettero il nome d’Homo
Sapiens
per le sue armi
estremamente sofisticate,
ricostruendone perfino lo
scheletro
e descrivendola in volumi
ponderosi
come causa senza dubbio
dell’eccidio
avvenuto sulla Terra. Quel
nome
ricorre ancora nei testi
scientifici,
ma qualcuno negli ultimi
congressi
ha proposto di chiamare
quella specie
brevemente e senza troppi
fronzoli
“Uomini” e questo fu il
nome più che infame
che restò come un marchio
indelebile
su quei tristi scheletri
oggi esposti
nei musei delle nostre
capitali. 7
Ma studi comparativi sul
DNA
della nostra specie
attuale
e quella di quegli uomini
sanguinari
permisero anche di
arrivare
a una scoperta di portata
filosofica
eccezionale, in quanto si
è risolta
senza più dubbi l’antica
diatriba
sulla natura originaria
del Male,
da cui si sa ch’è
tristemente affetto
tutto ciò ch’è materia
vivente
ovunque dislocata nel
cosmo,
come quella purtroppo che
incarna
anche la nostra specie
attuale
pur così orgogliosamente
civilizzata:
si assodò che durante la
Creazione
Dio era incorso in un
piccolo errore
nel progetto della bella
elica
di DNA ch’Egli aveva
realizzato;
forse il calcolo
matematico esatto
dei molti atomi atti ad
intrecciarsi
con l’Anima ch’Egli stava
innestando
nell’innocente materia
vivente
era arduo e complicato
anche per Lui.
Così l’errore s’era spanto
a macchia d’olio
generazione per
generazione,
inquinando totalmente
ovunque
la struttura genetica
della Vita
nonché la trama delicata
dell’Anima
che stava avvinghiata al
protoplasma
succhiandone le molecole
nutritive
come un bruco rinchiuso
nel suo bozzolo
che spera di diventare
farfalla.
Tuttavia si vide anche che
a prescindere
da questo imperdonabile
errore,
il seme della Vita che il
buon Dio
lasciò cadere da una scia
di cometa
che varcava gli spazi
siderali
sfiorando pianeti
inabitati
non era macchiato di
sangue
prima dello scontro fatale
col nero Astro e la
tragedia che ne venne;
era anzi abbastanza in
buono stato,
aveva pure la scintilla di
anima
prevista, poteva quindi
sopravvivere
abbastanza piacevolmente
nel suo Eden
se non ne fosse stato
spodestato
dalla genia sanguinaria
degli Uomini,
cui a causa della loro
onnipotente
diabolica sapienza
tecnologica
fu dato il nome tre volte
malfamato
di Homo Sapiens Sapiens
Sapiens. 8
A dire il vero la materia
vivente
aveva un solo
insopportabile neo:
a causa dell’errore
primigenio
insinuatosi nelle ardue e
complesse
equazioni differenziali di
Dio,
risultava così vulnerabile
dai nocivi influssi
ambientali
che ben presto fatalmente
appassiva
e poi rovinosamente
invecchiava
fino crudelmente a
morirne.
Nondimeno la materia
vivente
si sparse lo stesso
ingordamente
sui mari e sulle spiagge
appena emerse
sulla faccia accogliente
della Terra,
e chi per pestilenze o
vecchiaia
se ne moriva, pazienza!
erano in tanti,
una massa enorme e
prepotente
di individui giovani e
sani
che con i sessi eretti e
voraci
facevan ressa per venire
avanti.
Così i pulzelli, quando
pieni di meraviglia
dal loro uovo
dischiudevano gli occhi,
vedevano che
complessivamente
vivere anche solo per poco
era bello, e inneggiarono
osanna
a quel dono che intuivano
elargito
da un’alta Intelligenza,
seppure
da quando era andata a
riposare
non s’era fatta più vedere
sulla Terra.
Ma coltivarono grati lo
stesso
il buon seme della Vita
ricevuto
seppure così difettoso
non sapendo come reclamare
e onorarono comunque il
Creatore
popolando felici e
contenti
l’Eden che gli aveva
assegnato,
e che prima che
infuriassero le guerre
restò a lungo fiorente
d’amore. 9
Molti dati raccolti dagli
astronomi
sulla triste fine della
Terra
provennero anche dal
diffuso
resoconto di un antico
testimone
della grande efferata
ecatombe,
certo uno degli esseri
buoni
che ovviamente non aveva
ancora
le moderne tecnologie
astronautiche
per fuggire, e credette di
salvarsi
pensando di poter
continuare
la specie degli esseri
buoni
in una valle inesplorata
della Terra
protetta da impervie
montagne,
che sembrava perciò molto
adatta
a compiere il volere di
Dio.
Di quel Giusto purtroppo
si ignora
se abbia avuto un’adeguata
discendenza,
dal suo diario si evince
che scomparve
come un semplice oscuro
esploratore
nella fitta profondità
d’una foresta
sopravvissuta
all’invasione del deserto;
ma non si sa come questo
documento
sia per caso pervenuto
nelle mani
dei nostri avi prima che
lasciassero
al suo destino negli spazi
siderali
la vecchia Terra ed
approdassero salvi
con l’astronave sul nostro
Pianeta:
esso è stato scoperto da
non molto
che marciva con altre
pergamene
nelle cripte oscure e
graveolenti
delle nostre più antiche
biblioteche.
Ma ora ch’è stato
ritrovato
e tradotto da stupiti
papirologi
in una lingua digitale
accessibile,
è doveroso renderlo
pubblico
come monito per tutti gli
abitanti
dei pianeti che popolano
l’universo
e che forse hanno perso il
ricordo
della tragica storia della
Terra,
col possibile rischio che
inclinino
ancora una volta verso il
Male.
Ciò che segue è dunque il
resoconto
più veridico oggi
esistente
del disastro che ha
colpito quel pianeta,
segnato ancora sulle carte
cosmiche
come nave fantasma alla
deriva
col nome esecrato di
“Terra”. 10
Io Acmed ero figlio di
Zot,
ch’era figlio di Amman
figlio di Eber
nell’Eden donatoci da Dio
prima che eventi
spaventosi
ci dessero la Conoscenza
del Male;
così ho dovuto vedere
purtroppo
anche sulla mia persona
gli effetti del peccato
originario
che ha macchiato la carne
primigenia:
l’inesorabile
trasformazione dell’uomo
nella bestia, e poi
l’orrendo raggrinzimento
di tutto il corpo per la
laida vecchiaia
fino a diventare una larva
capace solo d’inghiottire
cibo,
in attesa della Luce del
riscatto
che la tolga dal suo
bozzolo grinzoso.
Ma ora che il mio tempo
sta per compiersi
e la vita pian piano sta
fuggendo,
non posso fare a meno di
narrare,
anzi gridare, con il
pianto negli occhi,
a chi forse leggerà questo
scritto
ciò che accadde a quelli
che bramarono
l’Avere piuttosto che
l’Essere,
e non sapevano quello che
facevano. 11
Il giorno del terribile
Evento
in cui la dannazione del
Mondo
ebbe inizio, ero solo un
bambinello
che una potente scossa
della Terra
sbalzò violentemente dai
suoi giochi;
stordito e attonito vidi
che il Pianeta
aveva improvvisamente
cambiato
la sua orbita diuturna
intorno al sole
e che altissimi nembi di
polvere
abbuiavano il giorno come
a notte,
tanto che perfino
procellarie,
esperte navigatrici di
uragani,
con caotici svolazzi ed
alte strida
dovevano cercare alla
cieca
un riparo, mentre l’aria e
la terra
tremavano, e gli ominidi
buoni
correvano piangenti a
nascondersi
coi topi nelle tane più
profonde.
Mai si seppe cosa accadde
veramente:
molti dissero che il corso
del Pianeta
si fosse scontrato con un
astro
nero come la pece e così
grande
che non s’era mai visto,
così grande
da contenere tutto il Male
del mondo,
e che il Male fosse stato
inoculato
in alcuni degli ominidi
buoni
da radiazioni altamente
venefiche;
ma a dire il vero questa
diceria
non fu mai veramente
provata,
perciò non si possono
escludere
altre ignote cause
extraterrestri
sfuggite forse allo
sguardo di Dio,
o addirittura da Lui
stesso volute
per mettere alla prova il
Suo gregge. 12
Quando il terremoto ebbe
fine,
tutti gli esseri buoni
della Terra
uscirono stralunati dai
cunicoli
per vedere da vicino il
nuovo Astro
che ancora avvolgeva il
Pianeta
in una sordida notte di
pece,
ma dovettero nascondersi
ancora
dentro buche che credevano
sicure
per salvarsi da un nuovo
nemico,
poi che presto una genìa
inopinata
di mostri orrendi,
generata dissero
da potenti radiazioni
dell’Astro
sui geni di molti
disgraziati,
cominciava a inseguirli
nelle tane
per massacrarli con pietre
taglienti
e divorarne la dolcissima
carne;
poi i mostri ne uscivano
sazi
forbendosi le bocche
insanguinate
alla fioca luce del giorno
che a poco a poco tornava
a rischiarare
la terra degli orrori mano
a mano
che l’Astro allentava la
sua preda
per riprendere la corsa
maligna
verso altri pianeti
sfortunati. 13
Ben presto quegli orridi
bipedi
applicarono con lena mai
vista
i loro turpi organi
erettili
a inseminare orride vagine
che erravano lascive per
il mondo
per generare altri mostri
affamati;
con arroganza si
autonominarono
Uomini Nuovi e inventarono
armi
molto più sofisticate
delle selci
per uccidere meglio tutto
ciò
che la nuova orda di
mostri
trovasse ovunque e subito
da divorare;
masticavano perfino
vecchie ossa
raspando con sacrilega
voluttà
come i cani la stessa
terra infame
dov’erano sepolti i loro
morti,
poiché ora nelle guerre
s’ammazzavano
con ferocia inaudita anche
fra loro;
poi come fiumi neri di
termìti
invadevano col ferro e col
fuoco
campi e boschi facendo
atroce scempio
d’ogni cosa ch’era nata
dalla terra,
fiori, alberi, uomini,
bestie,
ogni nido di tenero
implume
che non avrebbe pigolato
mai più. 14
Non occorsero neanche molti anni
perché iniziasse ad avanzare inesorabile
l’arsura insostenibile del
deserto
spazzato da bufere di
sabbia
che bruciò anche gli arbusti superstiti
dove prima tenere
pecorelle
alzavano il muso dall’erba
per aspirare i venti di
primavera.
Ogni mite creatura
mansueta
scomparsa dalla faccia
della terra
era stata fino allora una
trincea
che la semplice Vita
dell’Eden
aveva invano eretto per
opporre
il Bene alla violenza del
Male,
ma il veleno dell’Astro
s’era ormai
incarnito nei corpi degli
uomini
e sulla Terra infine fu la
Morte
a restare sovrana; fu la
stessa
loro furia fratricida, o
forse anche
la nemesi terribile di Dio
come accadde a Sodoma e
Gomorra,
ma certo più niente
sopravvisse
che avesse forma vegetale
o animale:
il vecchio mondo dell’Eden
scomparve
ormai inghiottito dalle
sabbie eterne. 15
Io non so perché
bambinello
fui risparmiato da tanta
distruzione;
fu forse per un sogno
premonitore
di mia madre prima
d’essere uccisa:
la visione d’un pianeta
deserto
che correva senza pace e
senza meta
nelle fonde immensità
dello spazio;
o forse fu il rumore
infrasonoro
che i suoi sensi
riuscirono a udire
del passo insanguinato
della Morte
che presto l’avrebbe
sopraffatta,
come spesso succede ai
vitelli
di presentirlo prima
d’essere condotti
al terribile macello, e
allora muggono
pietosamente già da molto
lontano.
Fu certo il desiderio
delle madri
che almeno un loro figlio
innocente
riuscisse a fuggire
dall’Eden
prima d’essere unto con
gli altri
dalla peste terribile del
Male
e prima di conoscerne il
castigo:
io vergine d’anima e corpo
pensai ch’ero stato
prescelto
per la nuova divina
missione
di rifondare all’altro
capo del mondo
una stirpe di uomini buoni
ripopolando la Terra ora
ignuda
con le forme gentili della
vita,
e a questo fine fu un
povero vecchio
a prendersi cura di me
per gli anni della mia
giovinezza
nascondendomi lontano dai
massacri
in una grotta che scavò
con le sue mani
camuffandone bene
l’entrata. 16
In quel luogo di quiete fittizia
il timore del Male incombente
andò a poco a poco sciogliendosi
insieme alla crudele memoria
dell’infame bagno di sangue
avvenuto davanti ai miei occhi.
Ebbi quindi un’infanzia felice,
nonostante la tremenda carestia,
infatti soltanto a malapena
giungevano fioche notizie
dall’Eden che le sabbie inghiottivano
con tutte le sue erbe, i fiori, i boschi,
e i docili animali feroci
ch’eran soliti lambirci le mani;
si coprivano di sabbia
perfino
le enormi fortezze
costruite
e poi abbandonate
nell’orgia
di sangue e di odio dagli
ultimi
uomini-mostri resi folli
dal terrore,
che le avevano erette in
un estremo
tentativo di non essere
sgozzati
dal furore degli stessi
fratelli;
perfino i colossi
d'argilla,
Vitelli d’Oro costruiti in
fretta
per scacciare gli spiriti
della morte,
adesso non erano altro
che rovine petrose senza
nome
arroventate da un sole
inesorabile
e abbandonate al loro
sonno cosmico. 17
Quando giunse a fine il
suo tempo,
il buon vecchio
apprestandosi a morire
disse ch’ero già così
grande
da mettermi da solo in
cammino
per cercare se un angolo
di Eden
in qualche parte remota
della Terra
fosse mai sfuggito allo
sterminio
e fosse in grado di dare
nutrimento
ad una stirpe di uomini
buoni
ancora timorati di Dio.
Una mappa clandestina,
sottratta
dal buon vecchio alla
caccia omicida
e su cui negli anni verdi
avevo a lungo
fantasticato studiandone
ogni segno,
sembrava testimoniarne
l’esistenza;
avevo anche rinvenuto nel
deserto
vecchie tracce di trincee
ed accampamenti
abbandonati da qualche
fuggiasco
che aveva già cercato la
salvezza;
soprattutto un sentiero
affiorava
appena appena dal terreno
riarso
e sembrava mirare lontano
verso l’oscura terra di
nessuno:
forse qualche Giusto era
riuscito
a scampare alla caccia
famelica
dell’uomo all’uomo e s’era
incamminato
verso un luogo della Terra
che sperava
nascondesse un angolo di
mondo
così protetto da poter
scampare
alla furia degli Uomini
Nuovi. 18
Decisi di seguire quella
pista
portando quel mio sogno in
fondo al cuore
attraverso il pauroso
deserto
che ormai aveva invaso la
Terra;
come un Re Mago che segue
la sua stella
seguii quella via della
speranza
per lunghe innumerevoli
notti
e lunghi innumerevoli
giorni
finché anche le ultime
tracce
si persero disperatamente
nel nulla.
Un giorno ch’ero in preda
all’angoscia
per l’inutile cammino
ormai privo
d’una meta e per gli occhi
ubriachi
dell’accecante bagliore
del deserto,
m’apparve crudelmente
verosimile
perfino la beffa
traditrice
d’una Fata Morgana, che
non era
la dissetante illusione di
un’oasi
ma una sierra di montagne
così alte
che le altezze innevate
sparivano
nel biancore del cielo,
pinnacoli
d’una immensa ingannevole
cattedrale
che sorgeva davanti ai
miei occhi.
Spinto irresistibilmente a
seguirla
pur sapendo quanto la
visione
fosse fittizia e
sfuggente,
con grande meraviglia
m’accorsi
che invece davanti ai miei
occhi
si ergevano montagne d’una
roccia
così vera da poterla
toccare
quasi con mano e dalle
cime aguzze
coperte di neve e di
ghiacci
talmente elevate ed
impervie
che certo ben pochi
scalatori
erano riusciti a valicare;
ma fui anche preso da
sconforto
per quei gioghi
assolutamente insormontabili
cui solo l’aquila poteva
avvicinarsi
con le lunghe sue ali
silenti
che attentamente
scrutavano il mondo. 19
Ma infine mi soccorse
ancora
la mia tenace volontà di
sopravvivere
e volli ugualmente tentare
le ripide pareti di roccia
per cercare una via che
non fosse
così inaccessibile agli
umani,
e fu ancora una volta il
buon Fato
a volere che a un tratto
m’apparisse
proprio innanzi ai miei
occhi un passaggio
così stretto da sembrare
una porta
apertasi su un mondo fino
allora
gelosamente custodito
dalla Terra;
e allora m’inoltrai
nell’ardua gola
certo con un po’ di
turbamento
ma anche rinnovata
speranza.
Scopersi con grande
allegrezza
che il valico fortunato
portava
ad una valle
miracolosamente
lussureggiante di
verdissima boscaglia
in un intrico di liane e
enormi fiori
che s’aprivano come
trepide creature
ad ogni piccolo fiotto di
sole
che filtrasse fra quei
grandi alberi;
io allora finalmente
riconobbi
il gran luogo di pace che
a lungo
avevo immaginato esistesse
durante la mia grama
infanzia
vissuta fra le aride
pietraie
di un mondo che stava
morendo. 20
Scoprii anche che il
cuore della foresta
proteggeva il sonno
segreto
d’una città ch’era morta
da secoli
ma fra le cui rovine
sembrava
che alitasse ancora lo
spirito
di uomini di buona volontà
e d’una gaia operosa
civiltà
una volta fiorente, che il
tempo
non era riuscito a
cancellare.
Varcai stupito il grande
portale
che portava ancora i segni
dell’antica
magnificenza, mi inoltrai
passo passo
in quel mondo silente di
ruderi
avvolti dalla fitta
boscaglia
in cui solo serpi ed
uccelli
avevano i nidi invisibili;
schivando le fronde degli
alberi
e gli arbusti che
impedivano il passo,
vidi are di templi,
colonne,
imponenti gradinate
muscose,
scesi in gallerie
sotterranee
che poi si riaprivano al
sole
fra le erbe di improvvise
radure,
laddove il mio passo
inatteso
risvegliava frotte di
uccelli
che col battere d’ali in
un baleno
incrinavano il silenzio
del Tempo;
ma subito esso riavvolgeva
come un uovo perfetto lo
spirito,
rapito nell’estatica
contemplazione
della morta città, che pur
muta
risorgeva davanti ai miei
occhi. 21
Ma ciò che soprattutto mi
stupì
e immensamente rallegrò fu
scoprire
fra i ruderi una piccola
radura,
e acceso dai raggi del
sole
un orticello lavorato con
amore
da invisibili eremiti, che
da esso
traevano il loro povero
sostentamento;
alcune galline ed un cane
che tranquilli riposavano
al sole
mi fissarono dapprima con
sospetto,
ma subito riconobbero
benevoli
il mio sincero desiderio
d’amicizia;
così rimasi un pezzo a
contemplare
quell’isola remota in cui
la Vita
per un miracolo s’era
conservata
avvolta da una florida
natura,
mentre oltre le montagne
la guerriglia
degli ultimi sperduti
morituri
che ancora bramavano l’oro
stava certo portando altro
dolore
a un pianeta già spogliato
di tutto
e destinato ad errare
senza meta
per gli spazi smisurati di
Dio. 22
Ma l’ansia così a lungo
inappagata
di vedere un mio simile mi
spinse
a turbare quella quiete
secolare;
m’avvicinai facendo
scricchiolare
i miei passi sulla ghiaia
ordinata
d’un piccolo giardino
fiorito
mostrando con le braccia
aperte
il mio onesto desiderio di
pace;
ma i monaci
inspiegabilmente
rimasero nascosti nelle
grotte
che avevano scavato nel
tufo
anche quando fui così
insolente
da chiamarli gridando ad
alta voce,
la cui eco rimbalzò sui
ruderi
e sui pendii scoscesi dei
monti
ed infine tornò da
lontano,
mentre frotte di timide
colombe
con un forte rumore di ali
s’alzavano
precipitosamente
per nascondersi nel fitto
del bosco. 23
Dunque degli Uomini
Giusti
ancorché timorosi
esistevano,
e io avevo osato pensare
che essi m’avrebbero
abbracciato,
m’avrebbero chiamato
fratello,
m’avrebbero offerto
l’acqua pura
del loro pozzo nel cavo
delle mani
poi che ero il viandante
da sfamare
e dissetare, forse l’unico
uomo
che vedevano da tempo
immemorabile;
ma la paura d’essere
assaliti
non fece uscire nessuno
dalle grotte
con un pane o una ciotola
d’acqua,
e io volli per rispetto
rimettermi
alla loro volontà: pensai
che i monaci
forse stavano immersi nel
profondo
d’impenetrabili estatiche
meditazioni
e che un intruso di
viandante ora veniva
a disturbarli, seppure a
braccia aperte,
solo per chiedere acqua e
vile cibo;
non avrebbero potuto mai
interrompere
la via intrapresa verso il
Nirvana,
poi che solo nella fonda
immobilità
di una solitudine assoluta
può accendersi la Grazia
dell’estasi
capace di squarciare il
buio
nei nostri occhi di
gattini appena nati
per donarci un lampo del
Vero. 24
Non restò che continuare
il viaggio
verso cime più alte ove la
terra
fosse troppo povera e
spoglia
per far gola alle bande di
predoni
forse sopravvissuti per
compiere
l’ultimo male prima che la
tabe
che ne aveva minato la
Specie
oscurasse le ore della
vita
anche a quegli infami
superstiti.
Forse in alto fra boschi
impenetrabili
c’era ancora una casa che
una volta
era stata accogliente,
forse un rudere
ma sufficiente a ripararmi
dall’inverno
e in cui forse rinvenire
le tracce
d’un vecchio focolare, il
calore
della casa natale di
qualcuno
che l’aveva dovuta
abbandonare
con il cuore disperato,
come quando
si abbandona il caldo
ventre della madre
per andare a morire
lontano.
Anch’io dovetti un giorno
abbandonare
la mia dolce casa di carne
in una fossa lontana,
profanata
dalla furia di sacrileghi
assassini,
e da allora non mi ha più
lasciato
il dolore di avere perduto
il buon ventre in cui
poter nascondere
il mio corpo così ignudo e
implume
sotto il peso di torbide
stelle:
ovunque fossi andato a
morire
sarei stato per sempre uno
straniero
colto dalla morte mentre
stanco
si riposa su una strada
sconosciuta
con gli occhi volti al
sole che tramonta. 25
Invece a un tratto
credetti di vedere
da lontano la casa
destinata
ad essere il buon ventre
di madre
dentro al quale avrei
potuto rinascere
come Santo Francesco a
nuova vita;
intravidi la mia provvida
Porziuncola
fra gli alberi fitti d’un
monte
e talmente nascosta dal
fogliame
che neanche avrei creduto
ai miei occhi,
se da lassù un vecchio
cane zoppo
non si fosse trascinato a
fatica
per venirmi incontro
guaendo
poi che era rimasto fino
all'ultimo
ad attendere il ritorno di
qualcuno
forse morto di terribile
violenza
o costretto da un destino
avverso
ad abbandonare la sua casa
all’inedia della
solitudine.
Adesso era venuto ad
incontrarmi
piangendo le sue lacrime
di cane
sulla mano che
l’accarezzava
e a raccontarmi i suoi
timori e le sue pene;
allora mi sdraiai con lui
sull’erba
per ascoltarlo, e lui
leccandomi il viso
mi elesse a suo fraterno
sposo
portandomi in dote la sua
casa.
Già scendeva il velo della
sera
con le ultime farfalle e i
pazzi voli
di piccoli pipistrelli
burloni;
sdraiato col gentile Frate
Cane,
avevamo rimirato le stelle
che m’avevano guidato nel
deserto
così lontano dal male e
dal dolore,
ma ci vinse la quiete dei
boschi
e un’infinita dolcezza
nelle membra;
a poco a poco senza quasi
accorgerci
cedemmo all’invito delle
stelle,
che sempre più deboli
svanirono
dagli occhi d’ambedue che
si chiudevano. 26
Mi risvegliai al calore
d’un fiato
chinato su di me per
annusarmi
e che odorava
tenerissimamente
di buon latte: era un
piccolo agnello
con la sua mamma, ed
allora capii
che in quel luogo non
s’era interrotto
il filo armonioso della
Vita
e che questa continuava a
sgorgare
dal cuore generoso della
terra
protetta da uno spicchio
ancora azzurro
dell’antico cielo
dell’Eden.
La poverella che nel suo
travaglio
aveva dovuto fermarsi
aveva perso le compagne e
la strada
proprio quando stava
fuggendo
col frutto benedetto nel
suo ventre
per scampare come me allo
sterminio;
ma adesso aveva scelto il
suo pastore
e brucava quietamente
l’erba verde
che cresceva in questa
parte di Eden
rimasta intatta fino ai
nostri giorni
affinché il nostro fato si
compisse.
Mi rizzai a sedere sul
prato
perché il sole illuminava
la mia casa,
le erbe luccicanti di
rugiada
cominciavano già ad
asciugarsi
ed ancora mi dormiva
accanto
il buon amico con le
guance flosce
appoggiate lievemente sul
mio petto;
l’accarezzai, ma subito
ebbi un tuffo
quando percepii che il
vecchio cuore
non aveva resistito
all’emozione
d’avere ritrovato un
padrone
e m’aveva affidato con
fiducia
anche il suo ultimo
respiro;
ma tutto era avvenuto
dolcemente
senza ch’io neppure
m’accorgessi,
poiché la Morte che tanto
temiamo
sa essere indulgente con
la Vita:
l’accompagna per un po’
lungo la via
e poi la lascia andare
gentilmente,
forse con una piccola
carezza. 27
Ma la Morte è speculare
alla Vita
ed ambedue sono fatte da
Dio
di buoni esseri che
nascono e muoiono,
di buona erba, di alberi,
di terra,
di aria che riempie i
polmoni
senza niente chiedere in
cambio;
i miei oggi li riempivo a
piene mani,
ma ancora non riuscivo a
scacciare
il pensiero dell’amico
Frate Cane
e della morte di tutti i
disgraziati
che ancora si ammazzavano
fra loro
e mai avrebbero capito
quanto sia
insensata una vita solo
tesa
a soddisfare l’Avere anzi
che l’Essere
anche a costo di perderla
per sempre;
quegl’infelici credevano
che la Vita
fosse loro debitrice
d’ogni bene
e dovesse ingrassare il
triste ego
destinato comunque a
perire;
gl’infelici non sapevano
che si nasce
per avere solo a titolo di
prestito
un minuscolo pezzetto di
terra,
giusto il posto ove può
stare un cane,
una pecora, un topo, una
gallina,
e poi un giorno le nostre
stesse ossa
insieme ai buoni spiriti
degli avi;
non si deve mai chiedere
nient’altro
al seme della vita, donato
agli uomini di buona
volontà
dalle buone comete che
viaggiando
per le vie misteriose del
cosmo
uniscono infiniti cieli e
mondi,
seppure non c’è dato di
sapere
se seguano il disegno di
un’alta
incommensurabile
Intelligenza
oppure rotte casuali dello
spazio
che un giorno riporteranno
la Vita
al Chaos che l’aveva
generata. 28
Fu tra quelle montagne
boscose
ch’ebbe inizio la mia vita
vera
cui sapevo di esser
destinato;
era svanita la paura del
fuggiasco
e affievolito il ricordo
degli orrori
che un dì m’era toccato di
vedere
coi miei occhi atterriti
di bambino;
ed ora che il sole
illuminava
la mia nuova Terra
Promessa
la salutai nel radioso
mattino
che stava sorgendo sul
mondo
rotolandomi grato
sull’erba;
mancava soltanto Frate
Cane,
che m’aveva dovuto
lasciare
dopo avermi lambito la
mano
col suo ultimo affettuoso
fiato caldo;
dandogli amorosa
sepoltura,
non ho mai così tanto
pensato
all’esistenza d’una vita
ultraterrena
per tutti gli esseri che
si vogliono bene,
Cani, Uomini, Pecore,
Galline,
tutti insieme come nella
vita,
e non voglio credere che
Dio
non l’abbia già in serbo
per noi. 29
Ma io ero vivo, corpo e
anima vivi!
Facevo capriole sul prato
già caldo grazie a Frate
Sole,
aspiravo i profumi
eccitanti
che esalava la terra in
fermento
per mille piccoli
organismi già al lavoro,
mentre tutte le erbe del
Creato
con le piccole anime
gentili
mi vellicavano il naso
gaiamente:
ecco, ecco, la buona
Acetosella,
riconobbi con un grido di
meraviglia,
proprio quella che
succhiavo da bambino!
uh! ecco anche il
Centocchio, la Bardana!
il Farfaraccio, il
Cicorietto, la Borragine!
uh, l’erba Cipollina! e
chissà quante
quelle ancora che non
conoscevo
ma buone da mangiare, se
da sempre
hanno dato nutrimento al
mondo
prima che la folle e
perversa
avidità degli Uomini
distruggesse
proprio le ricchezze che
essi
volevano a ogni costo
possedere
contendendosele l’uno con
l’altro. 30
Mi stupiva la Mente
straordinaria
che aveva saputo inventare
una Natura così ricca e
complicata
ma con tutte le cose e le
creature
così ben accordate fra
loro:
gli alberi, gli arbusti,
le erbe,
i mille odori, i mille
animaletti
e i mille onesti insetti
laboriosi
intenti a fabbricare la
vita,
e per la festa degli occhi
e del cuore
i mille fiori e farfalle
colorate;
Chi mai, quale forza dello
spirito
o di questa misteriosa
materia
aveva piegato le molecole
a formare quest’opera
perfetta,
i venti che scendono
dall’alpe,
le nuvole i fulmini la
pioggia,
i mille uccelli che
garriscono in cielo
pur sapendo di dover
morire,
ma per innata scienza
forse sanno
il perché di questa vita e
questa morte
calcolate con tanta
precisione
dal Grande Orologiaio,
questa morte
forse necessaria e a volte
dolce,
che oggi tocca al lupo,
oggi all’agnello,
e forse domani al
cacciatore. 31
Ma orsù, era l’ora del
lavoro:
esplorare, frugare,
restaurare
questa nuova casa per
l’anima
e per quella degli antichi
abitatori
che l’avevano intensamente
vissuta;
sentivo intorno a me
vicinissimo
di quegli Esseri
l’accorato rimpianto
e volevo dunque meritarmi
la loro casa riempiendola
d’amore,
cercare ancora di loro fra
la polvere
ogni piccola traccia, la
cenere
rimasta nel vecchio
focolare,
l’ultimo pezzetto di
carbone
della loro ultima cena;
in quale stanza ora vuota
e diroccata
stava il Letto di ferro
dei padri?
e dove, dove, era andato a
morire
fratello Tavolo consunto e
istoriato
dai temperini di tante
generazioni?
avrebbe ancora saputo
parlarci
dei sorrisi, dei baci,
degli affetti,
delle cene frugali, delle
veglie
nei lunghi inverni, del
fuoco scoppiettante,
delle storie di fantasmi
narrate
ai trepidanti bambini
sorridendo
davanti al bicchiere di
vino
e al lume di sego di
montone? 32
C’era anche da aggiustare
il tetto
che il gelo e la vecchiaia
aveva aperto;
ma con cautela, senza
disturbare
i nidi delle Rondini sotto
il tetto
che presto sarebbero
tornate,
il giorno, dicono, di San
Benedetto.
C’era anche da aggiustare
la scala
che scendeva nella grande
stalla,
quella dove tutti
d’inverno
dormivano insieme fianco a
fianco
col fieno, i miti bovi e
le vacche,
ma prima discutevano
sereni
di arature, di semine e
raccolti,
grati per il fiato così
caldo
delle bestie che già
riposavano
ruminando lentamente il
loro cibo
e per le lunghe fumanti
pisciate
che ogni tanto
scrosciavano fragorose
come provvide cascate del
Signore,
e avvolti dal vapore
generoso
i bambini dormivano
contenti
stringendo al petto le
bambole di pezza. 33
Non c’erano invero più
porte
né finestre, ma pensai:
che fortuna,
quella che lasciava
penetrare
il silenzio delle selve e
dei monti
e quello sovrumano delle
Aquile
che con le ali quasi
immobili salgono,
salgono sempre più alte
con l’occhio fisso in
cielo fino ad essere
vicinissime a Dio, ed è
allora
che lanciano grida di
osanna.
E poi ci sono gli spiriti
del luogo,
che si possono udire
talvolta
tendendo bene gli orecchi:
l’impercettibile brusio
dei prati verdi
e l’occhieggiare delle
piccole Margherite
che a Maggio si assiepano
impazienti
per aprirsi tutte insieme
al sole;
c’è anche il sottobosco
che attende
con un brusio il buon
raggio di luce
che filtri fra le tremule
foglie
appena vellicate dal
vento,
il fluire operoso della
linfa
negli impetuosi giovani
alberi,
ma che si sente solo con
l’orecchio
ben premuto sul tronco se
appena
azzittiamo i battiti del
cuore;
e poi i respiri un poco
ansimanti
dei vecchi tronchi, i veri
Re della foresta
con le grosse radici che
premono
per uscire fuori dalla
terra
e vedere anche loro la
luce.
Ora certo non ero più
solo:
questi spiriti stavano
nascosti
insieme agli Elfi nel
folto del bosco
ad osservare la mia goffa
persona;
curiosi ma anche un po’
inquieti
ammiccavano fra loro
commentando
le mie mosse di nuovo
venuto:
“è uno che sembra un buon
uomo,
però non è certo dei
nostri,
chissà perché è venuto fra
noi?” 34
Ma quest’uomo venuto da
lontano
senza arco né frecce era
qui
per chiedere la loro
investitura
a capostipite d’una
piccola tribù
desiderosa con l’aiuto di
Dio
di vivere secondo natura
con ciò che i boschi danno
all’uomo buono
quando onora gli spiriti
degli alberi
e tutti i piccoli Elfi che
abitano
i vecchi tronchi cavi del
bosco,
i quali vegliano benevoli
su di noi
e su tutte le sorelle
Creature
gioiose compagne in questo
viaggio
umilmente terreno e
celeste.
Ho cercato a lungo per i
boschi
questi piccoli Elfi
proclamando
la mia buona volontà di
pace,
ho perfino usato piccoli
tranelli
per convincerli ad uscire
almeno un poco
dal fitto degli alberi, ma
gli Elfi
sono timide creature
silvestri
che si mostrano solo
talvolta
quando sono assolutamente
certi
di poter aiutare un uomo
giusto
che sappia amarli come
veri fratelli. 35
Vissi dunque tutto il
primo inverno
lasciando entrare per
porte e finestre
tutte le creature
bisognose
d’un riparo, serpi, topi,
maggiolini,
vecchissime freddolose
lucertole
e insetti d’ogni specie
che discreti
si scaldavano intorno al
focolare
dove ognuno aveva il suo
posticino;
io pensavo a mantenere il
fuoco
che scaldava anche i
morbidi giacigli
preparati per i sonni di
tutti:
foglie secche e un po’ di
lana rubacchiata
a Mamma Pecora quand’era
accucciata
davanti al gran braciere
tutta immersa
nei suoi pensieri di
pecora contenta.
Quanto tempo abbiamo
passato
con questi bravi fratelli
e sorelle
silenziosi ma grati delle
cure!
Freddolosi, i fratelli
Pipistrelli
se ne stavano appesi tutti
in grappolo
all’architrave del grande
focolare;
fratelli Topi dopo aver
mangiato
curiosavano per tutta la
stanza
e qualcuno visitava
perfino
il mio giaciglio, ma senza
disturbare,
poi stavano in un canto a
far la siesta
ma con i vigili occhietti
bene aperti;
fratelli Ghiri invece,
bonaccioni,
stavano a dormire tutto il
giorno
al calore tremolante del
fuoco;
ma nessuno aveva il sonno
più duro
delle piccole Serpi, che
subito
s’infilavano nelle crepe
dei muri
scegliendosi un bel
posticino
per la lunga dormita
invernale.
Sorella Pecora invece e
Frate Agnello,
ch’era ormai molto grande
e velloso,
non lasciavano più il mio
pagliericcio
e facevano da calda
coperta
ai miei sonni altrimenti
infreddoliti,
ma non ho mai capito se
dormissero
o vegliassero con l’occhio
socchiuso
su tutti i miei sospiri di
dormiente. 36
Ma l’inverno si fece più
duro
e dai monti del Nord scese
soffiando
sorella Neve che entrando
di bufera
da porte e finestre riempì
tutta la casa, e il
focolare si spense,
così dovetti arrotolarmi
nel giaciglio
stringendomi ancora più
forte
al vello delle brave
Pecorelle.
Anche i Lupi discesero dai
monti
per cercare da mangiare
più in basso:
la prima volta fu con
grande batticuore
che ascoltai gli ululati
agghiaccianti
aggirarsi qua e là per il
bosco,
ma solo quella volta ebbi
paura,
poi capii che non facevano
alcun male;
Frate Lupo s’affacciò
anche alla porta
come vuole l’etichetta dei
Lupi
e il dovere di vecchio
Gran Lupo,
e sono certo che fosse
soltanto
per fare gli auguri di
Natale,
poiché tanto infatti
imperversò
per un lungo e bianco
Dicembre
quella prima bufera di
neve;
ma ricordo ancora la festa
dell’ultimo dell’Anno:
avevo dato
un po’ di acqua e di miele
perfino
alle brave Pecorelle, e
ballammo
così allegrotti in mezzo
alla cucina
dondolando per tutta la
notte
e cantando a squarciagola
fino all’alba. 37
Ma anche la tempesta finì
con la piccola nostra
notte brava
e sorse uno splendido
sole;
tutto il cuore mi
s’illuminò
alla vista dei fratelli
Cerbiatti
che tutti in fila uscivano
cautamente
per cercare con le mamme
il cibo
fra gli alberi carichi di
neve
cui staccavano con gran
delicatezza
qualche ghiotta fogliolina
ancora verde
o rosicchiavano una grassa
corteccia
appena ricoperta di
licheni;
ma grande festa si
spandeva in tutto il bosco
se i golosi furfantelli
rinvenivano
i succosi germogli d’una
pianta
che essendosi sbagliata di
stagione
era forse troppo presto
sbucata
tutta speranzosa dalla
neve.
Spazzai la Neve, ch’era
entrata in casa
senza mai fare male a
nessuno:
era morbida, secca,
leggera,
ricopriva tutte le cose
con una sua dolcezza
discreta
e si lasciava accarezzare
docilmente
dalla scopa gentile, poi
usciva
sussurrando quasi in un
soffio
un lievissimo cortese
“arrivederci”.
Pensai allora di trovarmi
davvero
nell’ultimo angolo di Eden
rimasto per prodigio
intatto,
se perfino da Sorella Neve
s’irraggiava l’Amore del
mondo. 38
Accesi il fuoco del
Ringraziamento,
e quella fiamma fu il più
bel saluto
all’Anno Nuovo del Primo
di Gennaio.
Ma dovevo scavare la neve
se volevo trovare le
radici
di raperonzolo che
svernavano sotterra
o le verdi foglioline del
prato
nascoste sotto il manto
bianco,
che però la foresta
offriva a tutti,
Conigli, Cervi, Caprioli,
Cinghialotti,
che con arte consumata già
sapevano
ove frugare la neve col
muso;
anche tutti gli uccelli
fortunati
che poterono venire alla
mia casa
trovavano sempre qualcosa,
vecchi semi e vecchie
briciole rimaste
nelle strette fessure del
piancito
fin dal tempo dei vivi,
quando ancora
la vecchia casa era tutta
rallegrata
dalla festa di grandi e
piccini.
Di loro non avevo trovato
alcuna croce nei dintorni
di casa,
però ero certo che ora
tutti quanti
erano qui intorno a me un
po’ commossi
per l’allegra comitiva che
riempiva
nuovamente di giovane vita
la loro vecchia amata
dimora. 39
Fino a quando gli è
consentito,
ai Morti infatti piace
molto sostare
nei luoghi dove vissero
felici:
stanno qui ad osservare
compiaciuti
da un luogo oltre la vita
ma molto,
molto vicino a noi;
pensate:
noi siamo i fortunati vivi
che ancora respirano
l’aria
che essi una volta
respiravano,
i vivi che ora possono
provare
lo stesso piacere di
esistere
godendo delle cose più
care
che a loro ora mancano
tanto,
perciò ogni novità che gli
mostriamo
li fa gioire come fa
gioire
i bravi nonni la vivace
gaiezza
dei nipotini che
scorrazzano per casa.
Allora anche le storie di
fantasmi,
che qualcuno racconta
d’aver visto
timidamente aggirarsi fra
gli alberi
e poi sparire, certo sono
vere,
ma bisogna aver l’anima
pura
dei bambini che sanno col
cuore
veder bella ogni cosa del
mondo;
solo loro li sanno
sorprendere
fra i cespugli o gli
alberi del bosco
o in un angolo discreto
della casa
e gli possono talvolta
anche parlare.
Ma a me, che avevo ancora
in cuore
l’urlo dei morti e
l’angoscia della Ragione,
questa buona ventura era
preclusa;
eppure avevo tanto
desiderato
di rivedere anche solo per
un attimo
almeno il vuoto simulacro
della Mamma
assisa sulla solita
poltrona
per chiederle almeno una
volta
cercando vanamente
d’abbracciarla
“perdono Mamma, se
quand’eri in vita
non t’abbiamo onorata
abbastanza”. 40
In quell’Inverno non
furono molti
gli uccelli cui restarono
le forze
per salvarsi, ma i
sopravvissuti
che come me salutarono
Primavera
sono stati i miei fedeli
compagni
dividendo la casa e il
poco cibo
che pure nella mia
imperizia
ero ancora riuscito a
raccogliere
scegliendo fra le mille
bacche
prima della venuta della
neve.
In tutti gli altri inverni
fu diverso,
perché dopo, con maggior
sapienza,
avevo messo da parte tanto
cibo
per tutti quanti, da
attendere con gioia
sorella Neve che a Natale
puntualmente
dalle gelide vette del
Nord
con Frate Lupo veniva a
visitarci.
Ma anche con le scorte
esaurite
l’uomo forte di cuore e
intelligenza
trova sempre qualcosa da
mangiare
per sé e per i fratelli e
le sorelle,
una Castagna, una Ghianda,
un Corbezzolo,
un Fungo secco cresciuto
sopra un ceppo
o una Gemma che il ramo ha
già pronta
per sbocciare tumultuosa
all’arrivo
di sospirata Sorella
Primavera;
oppure la Corteccia degli
alberi,
un poco amara per noi, ma
sotto è verde
ed anche lei è succosa e
nutriente
se ha sempre nutrito i
caprioli
in tutti gli inverni della
Terra.
Ma c’è anche la provvida,
preziosa
sorella Rosa Canina,
che da sempre nel colmo
dell’estate
ci offre dal folto dei
rovi
a piene mani la festa
colorata
di umili corolle, e
d’inverno
le sue grasse e splendenti
bacche rosse
coperte, sì, dalla neve,
ma è facile
per tutti gli animali
scoprirle
scuotendo bene i rami
imbiancati,
e allora è una pioggia di
frutti,
una grandissima gioia per
gli occhi
ma anche per la pancia
vuota. 41
Ma gli uomini ormai da
molti secoli
non ricordano quanto la
Natura
anche nell’inverno più
nero
sia prodiga di erbe
selvatiche
e di piccoli frutti capaci
di sostentare
generosamente
l’uomo giusto che si
affida a lei
con la fede e la letizia
che esaltava
anche il cuore di Santo
Francesco.
Ma è anche prudente
aiutarsi
da soli con l’astuzia e
l’ingegno,
perché Dio si dice che
aiuti
chi si aiuta; il Santo
Poverello
diceva alle Creature di
Dio
che la buona Divina
Provvidenza
non fa mancare il cibo
nemmeno
a chi non ha l’ingegno
d’aiutarsi,
ma nell’estasi delle sue
visioni
non vedeva quanti uccelli
d’inverno
cadevano stecchiti dagli
alberi
per la fame inviata dal
Signore
secondo un Suo disegno
imperscrutabile. 42
Ma ora che l’inverno più
duro
è passato e l’aria è più
mite,
bisogna pensare alle
semine
e al tempo della nuova
allegria!
Non so che semi fossero
quelli
che sgranai dai baccelli
che il gelo
aveva aperto, ma fu grande
meraviglia
vederli allegramente
germogliare
nel solco aperto sulla
terra vergine
con un semplice bastone
fatto aguzzo,
e poi trovare che le
piante cresciute
eran buone; fu così che
rivissi
tutte le esaltanti
scoperte
fatte dalle donne
intraprendenti
della mitica Età della
Pietra,
che se avessero dovuto
aspettare
che gli uomini tornassero
sazi
dalla caccia portando solo
gli ossi,
forse mai avrebbero
mangiato,
né loro né i loro bambini;
allora tutte insieme
decisero
di smettere l’improba
fatica
di cercare le radici
selvatiche
elargite d’inverno
avaramente
da nostro Signore (il
quale forse
voleva metterne alla prova
la pazienza)
e cominciarono ad aiutarsi
da sole
seminandole più
comodamente
e in abbondanza; divennero
così
già parecchie migliaia
d’anni or sono
talmente esperte nell’arte
contadina
da fondare un consorzio
comune
di floridi verdissimi
orticelli
con annesso anche l’asilo
nido
per i vivaci marmocchi
delle socie
che zappa in spalla
andavano pei campi. 43
Al tempo, quelle mamme
solerti
non potevano certo
immaginare
ciò che stava per
succedere alla Terra
per la loro felice
invenzione
di coltivare e mettere da
parte
più di quanto fosse loro
necessario
a mantenersi agili e
snelle.
Anch’io ero contento come
loro
e rivissi la semplice
gioia
di quelle donne coi
bambini sulle spalle
che avevano scoperto che i
semi
si potevano facilmente
moltiplicare
proprio come capre e
bambini,
e per prime godettero a
seminare
e a raccogliere le messi
per l’inverno,
a trebbiarle e conservarle
dentro ceste
custodite strettamente a
vista
da bravi gatti mai sazi di
topi,
che come è noto sono
perfidi ladruncoli
delle opere ingegnose
degli umani. 44
Solo molto più tardi si
seppe
ciò che accadde alle
povere donne
con le ceste riempite di
grano
per i loro bambini:
l’invenzione
di coltivarlo così
facilmente
piacque tanto agli avidi
maschi
da sognarlo in quantità
industriali
e disertare le cacce
faticose;
alle umili ceste
preferirono
enormi silos alti come
case,
e agli orticelli coltivati
con modestia
dal consorzio gentile
delle femmine
preferirono le monocolture
che si estendevano a
perdita d’occhio;
i bravi gatti vennero
licenziati
perché i bruti preferivano
le armi
usate nella caccia dei
cinghiali
per difendere gli averi
non dai topi
ma dagli assalti furtivi
d’altri uomini,
che cominciarono a
chiamare Nemici. 45
Fu così che il Male già
da tempo
sonnecchiante nei geni di
quegli uomini
si riattizzò e
cominciarono allora
le ruberie, le stragi, le
vendette,
gli enormi spargimenti di
sangue;
quei mostri di
guerrafondai
si autonominarono subito
razza eletta, signori
delle femmine
e di tutte le terre del
Creato,
e rotolarono sempre più
giù
fino al fondo della loro
vergogna.
Dapprima sgozzavano
soltanto
qualche tanghero colto sul
fatto,
poi contadini dalle ricche
ceste,
poi clan interi incapaci
di difendersi,
e dopo avere ucciso tutti
quanti
distruggevano i coltivi
dei superstiti
per affamare le donne e i
bambini;
ma sgozzarono anche i
bambini
e stuprarono le povere
vedove
per iniettargli il loro
turpe seme
e far loro generare turpi
Omuncoli;
speravano così che non ci
fosse
più nessuno ad invidiare i
loro beni
e quindi poter vivere
contenti
con le ricchezze
insanguinate dei vinti.
Ma anche se nessuno più
attentava
alle loro ricchezze né
alle femmine
ben protette fra le mura
degli harem,
cominciarono a distrarsi
dalla noia
dando a tutti, uomini e
bestie,
quella caccia che tanto li
eccitava,
e per avere qualche nobile
ideale
chiamarono i nemici
“selvaggi”
o “crudeli mangiatori di
bambini”,
e costruirono perfino una
statua,
enorme, tutta d’oro, da
adorare
come un Dio prima d’ogni
battaglia:
la chiamarono il Gran
Vitello d’Oro
e conteneva tutto il Male
del mondo,
che facevano poppare ai
loro Omuncoli
mischiato al sangue di
bambini nemici
per farli crescere sani e
feroci,
già pronti e avvezzi al
piacere delle armi,
così quei branchi di
assassini diventarono
più feroci d’ogni belva
sulla Terra. 46
C’è chi dette la colpa al
Grande Astro
che aveva guastato la
Terra
con venefiche radiazioni
contaminanti,
ma quegli uomini ormai
erano belve
avvelenate dall’Avere e
Possedere;
inventarono subito le armi
che facessero schizzare
più sangue
e conquistare più gloria e
potere;
qualcuno si fece anche Re
e fece costruire metropoli
nelle quali s’annidava
meglio il Male
e con queste soggiogava i
popoli
con la forza di eserciti
di schiavi;
ma si fecero avanti altri
Re
che avanzavano analoghe
pretese
e ammazzarono usurpati e
usurpatori,
e per stare più saldi sul
trono
astutamente inventarono
gli dei,
che rendevano più sacre le
leggi
e più sacre le stragi dei
sacrileghi
che tentavano di
togliergli il potere;
poi inventarono le guerre
mondiali
fra eserciti mondiali:
erano ottime
per avere molta carne da
guerra
da far benedire dai preti
prima delle grandi
battaglie.
Ma stando al sicuro sul
trono,
già pensavano al potere
assoluto
sull’intero Pianeta, e per
questo
occorreva inventare il
genocidio,
la soluzione finale, lo
sterminio
d’ogni forma di vita anche
a costo
di provocare la fine del
mondo
con una nuova arma
mortifera
che nessuno aveva ancora
mai visto
ma che avevano imparato
dal Demonio
ad estrarre dal centro
della Terra. 47
Neanch’io capii subito il
pericolo,
nonostante avessi a lungo
studiato
la Storia ed a lungo
meditato
sulle vite dei santi
eremiti
e su quelle degli uomini
virtuosi;
così non ripresi mai più
la mia semplice vita
d’uccello
che si nutre di quello che
trova
seppure con un po’ di
fatica
fra i rovi e le migliaia
di bacche
offerte dalla terra
benedetta;
tutto ciò cui ora miravo
era accumulare facilmente
tanto grano da potermi un
giorno
affrancare dal lavoro
manuale
che abbrutisce lo spirito
e il corpo
e assicurarmi tanti servi
della gleba
per la vile produzione del
cibo,
sì, tanto cibo da riempire
tanti silos,
così io avrei potuto
dedicarmi
alla nobile attuazione di
progetti
molto più graditi al buon
Dio
affinché la Ragione
Filosofica
un giorno imperasse
dovunque
e con i sani strumenti
della Scienza
ricoprisse ancora
santamente
la tabula rasa della Terra
per farne il più grasso e
potente
fra i Pianeti che onorano
il Signore. 48
La solitudine e il
silenzio dei boschi
mi facevano germogliare
nella mente
vertiginosi pensieri
propedeutici
al compimento della santa
missione
di rifondare il popolo di
Eletti
in quest’angolo eletto da
Dio
vigilando con sapienza ed
equità
che conducessero una vita
laboriosa
obbediente a tutti i Suoi
comandamenti.
Io già mi rallegravo, poi
che presto
mi sarebbe stato concesso
di contemplare quella luce
del Vero
che una volta gli eremiti
nascosti
fra i ruderi e in grotte
di tufo
m’avevano dovuto negare
per non perdere neanche
una goccia
delle loro esaltanti
visioni.
Oggi finalmente io so
che il lampo ineffabile
del Vero
ci trafigge soltanto dopo
lunga
tenace e faticosa
meditazione
e non si può condividere
con nessuno,
ma a quel tempo, confesso,
sospettai
che temessero d’essere
assaliti
da bande di assassini e
derubati
delle loro straordinarie
virtù,
o peggio, ch’essi fossero
soltanto
rigonfi della gretta
superbia
in cui spesso succede che
cadano
perfino gli spiriti
eletti. 49
Ahi, la superbia! ad un
tratto
mi venne l’inquietante
sospetto
che anche l’apoteosi del
mio ego
un giorno avrebbe fatto
scoppiare
il pallone della mia
superbia;
altro, che nobili
elucubrazioni
sulla salvezza di popoli
operosi,
a poco a poco cominciavo a
temere
d’aver prodotto delle vane
e fumogene
secrezioni mentali solo al
fine
di travestire di nobili
ideali
la mia oscena avidità di
possedere,
la vile scelta dell’Avere
anzi che l’Essere.
Ma la Ragione continuava
ad insistere
ch’era giusto accumulare
tanto grano
per gli inverni, le nevi,
le catastrofi,
pei giorni duri delle
vacche magre,
e in così grande esubero
da venderlo
ai villaggi più poveri e
affamati
del vecchio mondo in
rovina, pei bambini
rachitici con le pance
rigonfie
e le madri scheletrite
(tanto erano
tutti quanti destinati
alla mattanza);
ovviamente avrei avuto
diritto
a possedere anche servi e
molte mogli
per generare tanti esseri
buoni
che faticassero per me e
per il futuro
non lontano di onorato
benessere
che io avrei fornito a
tutti gli uomini;
perciò era a me ch’era
giusto lasciare
il compito sovrano del
governo,
ed io certo l’avrei fatto
onestamente
guardando sempre ai
principi illuminati
che può dettare solo la
Ragione. 50
Il dio della Ragione
Filosofica
mi blandiva come il
fondatore
di una nuova Legge
sovrumana:
un novissimo Governo dei
Filosofi
ma votato pur sempre ad
onorare
ovunque il Signore
Creatore
e a mantenere, anche in
modo coatto
con adeguate forze
poliziesche,
il primigenio Amore delle
origini.
Non potevo certo
sospettare
d’aver visto solo Fate
Morgane
o altri simili ingannevoli
abbagli
generati dalla mente,
poiché questa,
a causa della sua
ineludibile
struttura fisiologica di
neuroni
astutamente concatenati
fra loro
in modo circolare ed
egocentrico,
ha la grande furberia di
ripetere
con raffinata arte
tautologica
che è vero tutto ciò che
da lei
e solo dentro di lei è
creato.
Nessuno m’era accanto col
cuore
per ricordarmi questo
vizio della mente
ed ammonirmi ch’essa stava
conculcando
in me ogni dubbio, umanità
ed emozione,
forse anche l’anima,
insomma tutto ciò
che d’un robot fa un
essere senziente
e soprattutto dubitante;
in conseguenza
mai mi venne l’orribile
dubbio
che potessi appartenere
anch’io
alla perversa ed avida
specie
dei nuovi predatori, gli
Homo Sapiens
che da bimbo avevo visto
sgozzarsi
con l’odio iniettato negli
occhi
nella parte del mondo ora
deserta
da cui il buon vecchio
m’aveva salvato. 51
Temetti allora che
nascondermi nei boschi
non mi avrebbe salvato, se
il Male
davvero avesse già fatto
il suo nido
negli oscuri meandri del
cervello
come i vermi in una nera
carogna;
mi pareva di vedere la
prova
della mia degradazione nel
fatto
che neanche i miei piccoli
Elfi,
tutelari della vita dei
boschi
e più volte invocati ad
indicarmi
la via per raggiungere il
Bene,
mi si erano voluti
mostrare;
sapevo che m’erano ostili
perché avevo creduto
soltanto
nel prepotente dio della
Ragione
e temetti che senza
saperlo
anche la mia mente di
bambino
fosse stata trafitta dai
raggi
in quella orrenda notte di
tregenda
insieme agli altri uomini
buoni.
Allora presi a invocare la
Madre,
che avevo dovuto
abbandonare
sotto un rozzo tumulo di
pietre
al di là dei monti e dei
deserti;
volevo mi dicesse se
anch’io
discendessi dagli orridi
mostri
comparsi improvvisamente
sulla Terra
e che l’avevano così
barbaramente
stuprata e uccisa, sapere
se davvero
anche in me, in qualche
piega del cervello,
si celasse il gene di
uccidere
e divorare la carne
innocente
di animali, e forse anche
di uomini:
ero forse il guasto seme
dei predoni
che perfino nell’ora
paurosa
della propria morte
imminente
la follia impietosamente
spingeva
a fare strage d’ogni
essere vivo?
Il silenzio doloroso degli
Elfi
fu forse la triste
sentenza
della Madre dalla tomba
lontana. 52
Ma volli tuttavia
ostinatamente
ancora credermi immune dal
Male;
non mi accorsi che avevo
cominciato
a scheggiare per diletto
alcune selci
e a farle (giuro, solo per
diletto!)
più lucide e aguzze e a
mano a mano
che imparavo sempre più
taglienti;
le fissavo perfino ad una
canna
per lanciarle sui bersagli
e ancora giuro
ch’era un gioco, sì, forse
un po’ ambiguo,
ma miravo solo ad alberi
lontani
per potermi esercitare
nella mira
ed ogni colpo che mettevo
a segno
mi riempiva d’una gioia
che non era
affatto materiale o
sanguinaria,
ma genuinamente
metafisica:
era come se riuscissi a
centrare
proprio l’Occhio di Dio
sfolgorante
dentro la corazza
impenetrabile
dello Spirito,
conquistassi in un sol colpo
ciò cui tanto ardentemente
anelavo
e in un’estasi d’infinita
durata
restassi inchiodato alla
Sua Luce. 53
Ma un giorno senza
rendermi conto
colpii su un albero, certo
per errore,
anche un grosso pacifico
topo,
forse anche vecchio, poi
che stava arrancando
con un poco d’affanno su
per l’albero,
e lì rimase, inchiodato
come un Cristo;
io con gli occhi
spalancati vidi il sangue
colare, colare, lungo il
tronco
e rimasi inebetito a
contemplare
quanto fosse liquido e
rosso;
non so se provassi vero
orrore,
o soltanto vergogna per
l’errore
così imperdonabile della
mira,
se provassi almeno un po’
di pietà
o al contrario un orgoglio
inverecondo
per la mira eccellente
conquistata
col tenace esercizio
quotidiano;
non m’accorsi neppure che
l’alibi,
che dava al cento per
cento improbabile
colpire un bersaglio così
mobile,
vieppiù mi stuzzicava a
sfidare
i limiti sovrumani della
mira,
e purtroppo, in barba a
tutte quelle
rassicuranti previsioni
statistiche,
mi capitava di fare ancora
centro.
Provai allora più
sportivamente
a cacciare animali più
veloci
mentre terrorizzati
fuggivano
inseguiti dalla lancia
acuminata
che voleva inoculargli la
morte,
mi dicevo che erano
bersagli
veramente impossibili da
centrare,
quindi senza il minimo
rischio
di versare altro sangue
innocente.
Invece ogni volta
accadeva,
e venivo ogni volta rapito
da una strana febbrile
eccitazione;
a quel tempo non sapevo
ancora
ch’era il brivido
ancestrale che accompagna
soltanto la caccia per
uccidere,
il vile appostamento
traditore,
lo spietato inseguimento
dei cani,
e termina col colpo
osannante
della lancia; non sapevo
che un giorno
quel gioco avrebbe dato il
via
alla caccia molto più
stuzzicante
fatta all’uomo, e poi al
gioco assassino
della guerra insegnato
allegramente
anche ai bimbi con le
spade di legno,
mentre i grandi con molto
più gusto
e maggiore sapienza
tecnologica
si sarebbero ingegnati ad
inventare
armi micidiali per le
cacce
terribilmente molto più
emozionanti
chiamate guerre, proprio
quelle che un giorno
avrebbero distrutto,
dilagando
per mari e monti, il
Giardino dell’Eden
tramutandolo in orribile
ossaia.
Forse allora cominciai a
intravedere
il mio turpe destino, ma
ormai
m’aveva già inghiottito la
melma
di voraci e inclementi
sabbie mobili
e il fango m’arrivava alla
gola. 54
Infatti non seppi
fuggire;
e mentre affondavo
ignobilmente
in quel lago di sangue,
continuavo
ad aggrapparmi a tutti gli
alibi possibili.
che a iosa e sempre più
artificiosi
mi offriva con un ghigno
vizioso
l’arrogante Ragione
tautologica.
Così, fosse giusto o non
giusto,
fosse anche disumano,
confesso
che finalmente un nero
giorno accadde
ciò che era fatale che
accadesse
e che forse attendevo da
sempre:
fu durante un’altra caccia
sciagurata,
e non riuscii a respingere
con sdegno
la tentazione d’assaggiare
una preda
appena allora
insanguinata, mi dissi
ch’ero spinto soltanto da
legittima
curiosità, a dire il vero
un po’ torbida,
ma nondimeno non potei
astenermi
dal divorare l’innocente
bestiola,
trovai anzi il sapore
della carne
così eccitante che da
allora la caccia
fu il mio primo
irresistibile pensiero
e grande festa ripetere il
gioco
vincendo perfino la
vergogna
di assistere senza una
lacrima
alla pietosa agonia della
vittima. 55
Ma ebbi l’idea
d’arrostire
subito le prede appena
uccise
per non sentire l’odore
del sangue
allorché le divoravo, lo
mutavo
nell’odore ancor più
accattivante
di carne malamente
bruciacchiata
che non aveva più il
minimo sentore
del sangue sprizzato dalle
vene
delle bestie che ferivo a
morte;
così riuscii a non provare
più
nemmeno quel po’ di
vergogna,
e ne gustai senza scrupoli
la carne
ch’era certo molto più
appetitosa
dei tristi vegetali e
tristi semi
che fino allora mandavo
giù a stento
credendo di nutrirmi
santamente
perché fosse compiuta la
missione
di far rinascere l’Amore
Universale
in un Eden che mai più
avrebbe visto
l’oscenità del sangue su
nessuna
delle buone creature di
Dio.
Certamente i truculenti
ispiratori
di questo trucco furono
gli ominidi,
i miei avi cacciatori di
teste
timorosi che uccidere un
vivo
avrebbe offeso lo spirito
del morto
e scatenato terribili
vendette,
e allora inventarono il
rito
di bruciarne la carne col
fuoco
per rendere
irriconoscibile la vittima
e scongiurarne il
minaccioso fantasma.
Non ebbero così mai più
paura
di mangiare un ominide
nemico:
bastava tagliargli la
testa
per non doverlo guardare
negli occhi
ed infine arrostirlo sul
fuoco,
ch’era tutta buona ciccia
da mangiare;
poi divennero abbastanza
evoluti
da capire che quel rito di
scongiuro
sarebbe stato molto più
efficace
se avessero portato sempre
al morto
un po’ più di rispetto ed
allora
rinunciarono a gustarlo
alla brace
e cominciarono a
nasconderlo sotterra
consolandolo con qualche
vettovaglia
affinché il suo molesto
fantasma
non avesse più nulla da
reclamare
e nelle notti inquietanti
di luna
non venisse mai più a
tirargli i piedi. 56
Ormai ero più che
consapevole
di dipendere anima e corpo
senza neanche un filo di
rimorso
da quella nuova fame di
carne;
presi infatti a riempire
le ceste
di ricche e sostanziose
granaglie
non più per nutrire me
stesso,
ma per l’ingrasso di
animali prigionieri
che mi tenevo in serbo per
l’inverno;
giunsi anche, che Iddio mi
perdoni,
ad uccidere l’Agnello e la
sua Mamma
per ricavarne il vello ed
una ricca
riserva di carne da
insaccare;
li ho sgozzati senza
neanche sapere
come si fa, tanto innata è
la scienza
contenuta nei geni di chi
è sporco
già da troppi millenni di
mattanze
d’uomini e bestie; ma
quando li appesi
per scuoiarli tutti e due
gocciolanti
del loro sangue ad un
albero che invano
tentai di proclamare sacro
Totem
affinché legittimasse la
cocente
strana vergogna che
m’aveva preso,
in quell’attimo sentii
nitidamente
che s’era finalmente
squarciata
la vescica del Male che
anch’io
dovevo avere di certo in
fondo al cuore;
sentii che se ora nessuno
avesse fermato la mia
mano,
tutto il Male sarebbe
ricaduto
sui miei figli e i figli
dei miei figli
e sull’Eden che credevo di
foggiare
ad immagine e somiglianza
di quello
creato da Dio, ma ch’era
stato
anche allora travolto
dallo stesso
incurabile male omicida 57
Allora abiurai la
Ragione,
l’unica guida che credevo
capace
di farmi luce, ed ora
ch’ero orfano
piangevo senza più ritegno
finalmente vere lacrime
umane,
come quelle d’un bimbo che
ha perso
nella ressa la mano della
madre.
Ora avevo l’amara certezza
che il subdolo germe del
Male
è indissolubilmente
attorcigliato
al DNA degli esseri
viventi
e viene inoculato nel
sangue
di padre in figlio proprio
quando i nati
entrano con un vagito
nella vita,
ignari che il bene di
vivere
si paga togliendo la vita
ad altre vite e il
terribile fato
li spingerà a divorare
ogni cosa
che si muove sulla faccia
della Terra
facendo del mondo un
carnaio,
una montagna di ossa mute
e bianche
che da millenni questo
Sole ostinato
calcina per ridurre in
polvere. 58
Dunque la fatidica
missione
di cui m’ero bellamente
investito
era solo una perversa
incongruenza:
riprodurre la Vita
innocente
di un mitico Eden,
descritto
soltanto nella Bibbia e
che forse
non è mai neppure
esistito,
per tornare di nuovo ad
ucciderla;
questo, dunque, il
risultato della guida
d’una orribile gelida
Ragione
che non seguiva il Vero ma
soltanto
la brutale e prepotente
volontà
di autoaffermazione
dell’Ego;
dov’era ora l’alto ideale,
lo strenuo inseguimento
della meta,
se mai poteva essercene
una
a guidare un pover’uomo il
cui cuore
era adesso totalmente
vuoto
d’ogni vero, d’ogni bene,
d’ogni grazia? 59
Il fiato della Morte è
vicinissimo,
come quello d’una bestia
che c’insegue,
quando accade di toccare
con mano
il vuoto di certezze fino
a ieri
credute assolutamente
veridiche
e si conoscono anche così
bene
le armi per estinguere la
vita;
a che serve infatti la
vita,
se dopo tanto tempo
passato
a edificargli solide
fondamenta
perché crescesse fiera
come un dio
e salisse onnipotente fino
al cielo,
si scordano le regole più
semplici
per vivere da uomini
Giusti
e restare carnalmente
fedeli
alla Natura, che ci tiene
in grembo
come una madre il frutto
del suo sangue?
Come abbiamo potuto
accettare
che il Male germogliasse
in quelle cellule
seminate da Dio sulla
Terra,
che da allora s’è coperta
d’una folla
di assassini: tetre oscene
creature
che una volta Dio chiamava
a sé
coi dolci nomi di uomini e
animali
uniti in amorosa famiglia,
e che ora si mangiano fra
loro
crudelmente, le vittime
rassegnate
offrendo il collo
docilmente al carnefice.
E’ la Vita che si uccide
con le sue mani:
non sembra che la Morte
sia il castigo
per avere osato di vivere? 60
Mi destai da quei cupi
pensieri
per un lieve bisbiglio di
passi
leggerissimi, quasi un
calpestio
di zampette di topi alla
mia porta;
era aperta come sempre a
tutti,
ma quel giorno fu il
giorno d’un evento
che doveva indicarmi la
via
del mio ultimo cammino
mortale
per tornare alle origini
della vita:
nel vano della porta era
apparsa
circonfusa d’una luce
ultraterrena
una soave dolcissima
Creatura
ed io mi chiesi se mai
fosse un Angelo
oppure un Elfo gentile
venuto
a portarmi la buona
novella
che desse significato
all’esistenza;
forse ora i buoni Elfi dei
boschi
credevano in me, forse
anche
in una mia possibile
redenzione,
venivano incontro alla mia
casa
per ridarmi la conoscenza
di quel Vero
che avevo colpevolmente
dimenticato,
forse adesso tutta la
foresta
mi accoglieva come un
prodigo figlio
che tornava a testa china
dal Padre
per condurre quella
semplice vita
di semplice uomo che da
tempo
avevo ripudiato ma che
forse
senza ch’io neppure lo
sapessi
da sempre m’era stata
assegnata. 61
La vecchia Ragione
Tautologica
troppo a lungo aveva
ignorato
gli innati bisogni del
cuore
e non seppi subito
riconoscere
il messaggio di quella
straordinaria
Apparizione; ma poi a poco
a poco,
come un povero cieco dalla
nascita
che per un singolare
miracolo
comincia a riconoscere la
luce
a sprazzi ogni giorno più
grandi,
ho imparato a riconoscere
il Vero
suggendolo dai limpidi
occhi
di Colei ch’era apparsa
alla mia soglia
portatrice d’una luce che
certo
era vero amore
ultraterreno,
e fu mia Sposa, Madre,
Sorella,
m’avvolse nel suo candido
grembo
illuminandomi di tanta
bellezza
da salvarmi dalla morte
dell’anima. 62
Nel lungo tempo passato
da allora
quella luce non ha mai
cessato
d’indicarmi la strada del
Vero
per essere un Giusto fra i
Giusti
e vivere la mia umile vita
come tutte le umili
creature
protette dalla grande
Foresta,
che nascono, amano e
muoiono
contente d’avere vissuto
seguendo soltanto Virtute
e rinunciando
all’ingannevole Conoscenza,
quella vana Fata Morgana
scaturita dal vizio della
Ragione;
le felici creature del
bosco
non desiderano mai niente
altro
che di essere alberi ed
erba,
nascere e rinascere dalla
terra
anche dopo la morte dei
figli
e i figli dei figli, non
essere
nient’altro che humus
nutritivo
per le nuove creature, e
poi polvere
dispersa dal vento fra le
zolle
secondo il volere di Dio. 63
Ora sono un vegliardo
come tanti
sazio della vita e di quel
poco
di conoscenza concessaci
da Dio
nel minuscolo pezzetto di
terra
che un giorno ci aveva
affidato;
ma la luce della bella
Apparizione,
che quel giorno mi avvinse
ridandomi
l’anima che avevo venduto,
splende ogni giorno più
forte:
è la luce divina d’Amore
ch’io non seppi creare nel
mio Eden
e assomiglia moltissimo
alla Luce
che adesso vedo sempre più
forte,
sempre più
irresistibilmente vicina,
da cui so di essere
atteso.
Ma adesso la Morte non è
più
il castigo per essere
vissuti.
Nota dell'autore
A ben pensare il titolo di questa fiaba avrebbe
potuto essere “Fine del Mondo”, ma la prudenza, che pur qualche rara volta mi
soccorre, mi ha consigliato un titolo meno catastrofico, visto che la fine del
mondo, che molti dicono già iniziata, non sembra ancora compiuta. E’ vero
infatti che il nostro Pianeta si trova in cattive condizioni di salute a causa
dell’insipienza dei governanti, ma è altrettanto vero che negli organismi
viventi si è formata una benefica assuefazione alle disgrazie provocate da
carestie, veleni, effetti serra, inondazioni e immondizie; ciò potrebbe anche
incoraggiare una visione più ottimistica, se non fosse che incoraggia i popoli
più poveri a moltiplicarsi come conigli ancora più smodatamente di prima, non
solo per rimpiazzare i morti seguiti a quelle fatali congiunture ma per il bieco
disegno di prendere in forze il possesso del Pianeta. Non si può tuttavia fare a
meno di notare severamente che nonostante questa minacciosa prospettiva c’è
ancora fra noi una moltitudine di volenterosi impegnata con grande carità
cristiana a salvaguardare le straordinarie attività sessuali dei poveri
piuttosto che la salute dell’ecosistema.
Noi che invece apparteniamo alla élite dei
saggi dotati di mediocri attività sessuali, ma obbedienti al dio della Ragione e
quindi privi di carità cristiana, siamo favorevoli a un’inflessibile riduzione
delle popolazioni per frenare l’avvento della tragedia, prima di dover ricorrere
all’estrema risorsa di far fuggire nottetempo su un’astronave verso più
accoglienti galassie almeno un eletto manipolo dei nostri pochi e preziosi
figli. Frattanto però bisognerà pensare a difendere le nostre proprietà
riducendo drasticamente l’invasione degli avidi predatori, in modo che non ci
venga tolto l’accesso alle ultime delizie che ancora rimangono del Pianeta prima
della sua definitiva distruzione da parte di barbari incivili: è infatti a noi
eletti, che Dio ha dato la Terra Promessa, non alla pletora di straccioni venuti
dopo, quindi abbiamo tutte le ragioni di difenderla dagli intrusi.
Molte anime caritatevoli si preoccupano
giustamente che la drastica riduzione dei poveri avvenga possibilmente in modo
umano e senza troppo dolore, ma occorre dire che tali timori sono largamente
infondati: è vero che finora i tentativi di decimazione sono stati fatti in modo
deplorevolmente crudele da goffi strateghi mediante goffe guerre d’invasione e
poi altrettante goffe guerre per mantenere la pace; ma non tutti sanno che oltre
alle vecchie e obsolete camere a gas con annessi forni, che fra l’altro
sperperavano troppa energia e inquinavano il Pianeta, ed oltre alle obsolete
bombe atomiche i cui effetti di lunga scadenza potevano pericolosamente
ritorcersi sugli stessi operatori, la moderna “scienza della persuasione” ha
messo a punto modelli più raffinati per sterminare i popoli facendolo in modo
pulito e con aristocratica eleganza; essendo questi infatti costituiti da poveri
e sprovveduti (altrimenti sarebbero ricchi) e per di più tormentati dallo sporco
e dalle mosche, non sarebbe cristiano procurargli ulteriore sofferenza.
Le anime gentili dunque si rassicurino; in
questa sede basti accennare come esempio al modello matematico studiato dai
nostri economisti: il generoso progetto di fornire ad ogni famiglia povera una
piccola TV, magari con sconti sull’abbonamento; essa infatti è in grado di
produrre nelle menti semplici una gradevole pre-anestesia ipnotica e poi, con
suggestioni subliminali, ma anche con allettanti consigli per gli acquisti, di
convincerle a farsi succhiare il sangue dai ricchi a poco a poco, in modo che,
abituati all’anemia, quasi neanche si accorgano di morire; e in genere infatti,
a prescindere da qualche scaramuccia qua e là, deplorevolmente soffocata nel
sangue, i poveri muoiono abbastanza serenamente e con tutti i conforti
religiosi. Quale che sia comunque il metodo usato, il fine è sempre di creare un
mondo più igienico per pochi ricchi, i quali, finalmente liberati da odori
molesti, possano scorrazzare con lussuose automobili ecologiche senza che su di
loro si posi una sola mosca.
Non voglio certo tediarvi con un elenco di
altre astute e raffinate tecniche per una indolore Soluzione Finale; mi basta
rammentarvi, nel caso che non ve ne siate accorti, che la presente fiaba era un
onesto grido di denuncia del modo grossolano ed incivile usato in tutti i tempi
per ridurre il numero dei poveracci del mondo. L’unico dubbio è che la Chiesa ci
chieda conto della sorte delle loro anime, ma per fortuna c’è sempre qualche
persona timorata di Dio che, oltre a sopprimerli, si dà anche un gran daffare
per battezzare gl’infedeli e farli entrare volenti o nolenti in paradiso.
Quanto al genere letterario di questo scritto,
non sforzatevi di capire se sia una poesia, un racconto, una riflessione
filosofica, o qualche altra cosa; forse sareste propensi a considerarlo una
qualche sottospecie di “poema”, ma io non vi dirò né sì né no, perché non voglio
dare alcun pretesto di irritazione ai poeti veri, i quali, anche se oggi non
poetano più come una volta, si sentirebbero lo stesso chiamati in causa per il
fatto dei versi quasi tradizionali e storcerebbero il naso davanti a uno scritto
così diverso da qualsiasi altra cosa ch’essi possano immaginare sia lecito
scrivere in poesia. Tuttavia, anche se non saprete come chiamarlo, importante è
che non vi siate annoiati, e magari v’abbia fatto un po’ meditare sui peccati
vostri e dei governanti che avete votato; se poi ci fosse fra voi qualche prete,
non si adombri se mi sono permesso di insegnargli una apocrifa, ma più veritiera
teologia, quella che gli è sempre stata dolosamente taciuta sui banchi del
Seminario.
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