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Isole e vele
© 20042 by Veniero Scarselli
in: Il Lazzaretto di Dio
La prima edizione di Isole e vele
è uscita nel 1988 come opera d’esordio con un’introduzione di Vittorio
Vettori e per i tipi di Forum Quinta Generazione, Forlì. Poiché
l’opera mi sembrava poco omogenea dal punto di vista narrativo, ho operato e
rielaborato una selezione di 44 lasse che ne enucleava soltanto la storia
d’amore e che è uscita nel 1997 a cura del Premio Libero De Libero col titolo di
Fuga da Itaca e un’introduzione di Luciano Luisi. Una seconda
selezione ulteriormente elaborata e ridotta, col titolo di Pianto di Ulisse
e introduzione di Aldo Maria Morace, è uscita nel 1998 a cura del premio
Rhegium Julii. La presente stesura, nuovamente e profondamente rielaborata con
l’intento di una maggiore omogeneità, riprende all’incirca il numero di lasse e
l’impianto narrativo dell’opera originaria.
All’oasi
d’Abu Assan
solo pochi
viaggiatori temerari
per maligna
deviazione della bussola
o errore fatale
di stelle
arrivano
stremati da oriente
inseguiti dal
bagliore accecante
del deserto,
dagli agguati velenosi
saettanti dalle
tane ad ogni passo,
dall’oceano di
sabbia infocata
che cerca
voracemente d’ingoiarli.
Ma l’oasi d’Abu
Assan
è la fine
predestinata d’ogni viaggio;
oltrepassi le
sue porte sempre aperte
e una magica
quiete ti guida
dolcemente nei
fatali labirinti
di una chiara
ed alta foresta
che sovrasta il
tuo occhio smarrito
ebbro ancora
d’inganni e di miraggi;
non sai se
sogni, ed il timore che svanisca
ti spinge nei
giardini incantati
tra fiori e
frutti e limpide sorgenti,
vedi uomini e
animali pazienti
all’ombra dei
palmizi che hanno gesti
di antica
millenaria saggezza,
s’inchinano
gentili, offrono frutti,
tè di erbe,
linimenti miracolosi.
Vorrei metterti
a parte, o mia amata,
di questa
straordinaria avventura
ma sono
sopraffatto dal male,
già mi trema la
penna nella mano,
è l'ultimo
assalto della febbre
sorbita nelle
ore della sete
alle putride
pozze con le iene;
allora ti
scrivo questa lettera
prima di
smarrire la memoria,
anche se so che
se un giorno
per un caso
fortunoso l’avrai
ormai sarà
passato troppo tempo,
tutti i segni
sbiaditi o cancellati.
Volevo dirti
che qui è la fine giusta
del lungo
viaggio, che ha termine anche l’ansia
ed il dolore,
che è dolce anche l’attesa
folle e
disperata d’una lettera.
In certe
chiarissime notti
mi sembra
d’avere vegliato
a lungo su un
veliere immobile
senza vento
alla deriva nell’oceano,
le vele che
cadevano flaccide
e restavano
vuote come occhiaie
divorate da un
male inesorabile.
Son solo
fantasie della febbre,
o brandelli di
veri ricordi
che affiorano
da altre esistenze,
il mare
silenziosamente vivo
dei Sargassi,
l’arcana interminabile
bonaccia,
quelle notti di stelle
piene d’ombre e
di echi di abissi?
Nessun marinaio
mai seppe
cosa accadde
una notte terribile,
ma il veliere
un giorno è tornato;
la leggenda
dice che il vento
ha infine
gonfiato le vele,
il ventre della
nave fremette
ed in patria
senz’alcun timoniere
la spinse una
Mano invisibile.
Inutile cercare
d’indagare:
i vecchi non
sanno parlare,
muovono le
labbra tremolanti
biascicando
soltanto suoni rotti,
e il diario
sdrucito di bordo
ha solo delle
pagine bianche;
io stesso,
quando cerco di frugare
nei recessi più
nascosti della mente,
mi afferra
un’angoscia indicibile.
Il vascello
oggi pare riposare
in una putrida
darsena abbandonata,
ma talvolta
nelle notti di tempesta
l’ululato del
vento fra le sàrtie
e la risacca
che tormenta il bastimento
fa sembrarlo
stranamente ancora vivo;
se si preme
l’orecchio sul legno
si sentono dei
fremiti impercettibili,
quasi lievi
gorgoglii di budelle;
forse una
memoria straordinaria
è rimasta
intrappolata tra le fibre
ormai rose dai
vermi e dai topi?
o forse là
dentro respira
e si dibatte
ancora un testimone
che
approssimandosi l’ora della morte
chiede almeno
la pietà d’un ricordo?
Poco a poco
si compongono i ricordi:
mille temerarie
navigazioni
e splendide
fate Morgane,
chiarori di
notti e di oceani
e veglie
interminabili di stelle
compagne d’un
veloce veliere,
scricchiolii di
alberi e di argani
gementi per lo
sforzo delle vele
e sonni di
uomini a bordo
con le membra
abbandonate di bambini;
ma al timone,
con i sensi di fuoco
protesi da
sempre nella corsa,
ora che
ricordo, ero il solo
a sapere per
certo la mèta
di quella rotta
diritta e precisa
misurata da
assolute triangolazioni
di stelle, là
dove attendono
altri oceani,
altre isole, altre terre
da forze umane
forse mai raggiungibili
ma abitate da
uccelli meravigliosi.
Non so se
fu maligna deviazione
della bussola o
errore di stelle,
oppure fui
sospinto lontano
dai marosi di
un vento sfavorevole;
ma quando
sgomento scoprii
di solcare
delle acque inesplorate
ero già
divenuto prigioniero
dell’oceano
improvvisamente fatto calmo;
fu allora che
vidi
fra le brume
d’un grigio silenzio
emergere dal
fondo dei millenni
un arcipelago
di scogli bianchissimi
che si
lasciavano scaldare dal sole
quasi corpi di
animali marini
liberati da
annoso letargo.
Quando osai
finalmente sbarcare
era tutto
stranamente immobile,
i sassi
biancheggiavano come ossa
sotto il rombo
monocorde delle cicale,
ma udii anche
forte e distinto
il verso d’una
bestia invisibile
sovrastante la
macchia riarsa
come il grido
aspro e imperioso
d’un solitario
uccello marino.
Infine scoprii
la sua orma
stampata sul
suolo e percepii
il ribollire
d’una vita sotterranea
extraumana,
quella orrenda e infelice
di diafani
mangiatori di carne
che agognano
un’orgia di sole
e di furioso
amore animalesco.
Non so quanto
tempo errai ebbro
del nuziale
accecante splendore,
poi la luce
totalmente mi vinse
ed io nel
deliquio conobbi,
solo allora
veramente conobbi,
la potente
straordinaria Creatura
che del mio
corpo e della mia volontà
s’impadronì, e
volle nell’amplesso
plasmarmi a
propria immagine e somiglianza.
La scialuppa
coi remi abbandonati
cedette allora
ad un maligno vento
e si perse fra
i marosi dell’oceano.
Ora in
quest’isola maledetta
che ostile si
erge sull’oceano
sempre più
lontano da Itaca,
ignorata dai
vivi e dai morti,
scoscesa ai più
tenaci degli uccelli
poiché non
cresce né arbusto né erba
ma solo
concrezioni irriconoscibili
di antichi
disperati naufragi;
in quest’isola
frustata dai venti
e dalla guerra
diuturna contro il Male,
in quest’isola
di nembi e di folgori
che tiene
incatenati i miei compagni
come porci e la
mia nave spoglia
pesante ed
inutile come un tronco
ma aggrappata
con le unghie e con i denti
all’esile
sortilegio della vita
mentre attende
impotente di soccombere
ai marosi
frangenti; in questo limbo
mi sopraffà il
ricordo d’una mano
una volta così
calda sul viso,
che mi manca
con acuto dolore.
Oh la prima
dolcissima volta
che quella mano
mi seguì nel bosco:
una pioggia
appena cessata
stillava ancora
dai faggi
ed io per
felpati sentieri
la conducevo
piano ed attento
poi che era di
ignota creatura
e forse ancora
era fredda,
ma negli occhi
socchiusi indugiava
la meraviglia
d’un chiaro mattino
e il suo piede
gentile sfiorava
così
delicatamente la terra
coperta di
manti di foglie.
L’inverno forse
ancora tratteneva
la sua linfa in
gallerie sotterranee,
indovinavo
letarghi di radici
non ancora
richiamate alla luce,
ma io con amore
tenace
vegliavo il suo
sonno e il suo respiro
con l’antica
pazienza del bruco
entrato nel
cuore del tronco,
sicuro che un
giorno a primavera
un tripudio di
foglie e di fiori
sgorga dai
cuori degli alberi.
E un giorno
che fondo silenzio
custodiva in
una mite nebbia
il cantare
solitario d’un uccello
e il bosco
beveva un po’ di luce
con le gemme
impazienti di marzo,
“ora è tempo”
dissi sfiorandole
con tenero
timore i capelli
umidi del miele
della notte;
ma già mille
nuovi germogli
premevano la
sua carne matura
che s’apriva al
pullulare delle cellule
come un seme
s’apre all’utero della terra.
Fu allora che
io rinascendo
nel buio più
geloso del suo grembo
insieme al dono
antico della vita
ricevetti nelle
mani la sua anima.
Fra le dune
assolate di spiagge
emerse da un
benevolo oceano,
nascosti fra i
mirti e i ligustri
ove dolce è il
segreto d’amore,
scoprimmo
stupiti e abbagliati
la verità dei
nostri corpi ignudi
inondati dai
raggi di luce.
Fu l’ora del
trepido abbraccio,
sbocciato come
un giglio al sole
sulla sabbia
già tenera di fiori;
solo deboli
suoni lontani
ovattati come
ali piumose
giungevano da
un mondo vecchissimo
ormai
abbandonato a consumarsi.
I corpi che
cercano i corpi
accesi come
fari dal prodigio,
il brivido
delle carni e delle mani
che frugano
strisciando come topi
ingordamente di
sotto alle vesti;
e l’abbraccio,
il singulto dei sessi,
gli spazi
percorsi in un volo
su voragini di
luce insostenibile.
Poi il cielo
vegliò amorosamente
le vittime
inermi e sbigottite
dell’umile
antico sacrifizio,
i corpi
trasparenti fioriti
e appesi come
pigre lucertole
alle altissime
pareti del cielo.
Fu il rogo
primigenio di nozze
con cui
rendemmo fertile la terra,
fummo i nuovi
ed antichi bambini
che corsero col
mare alle caviglie
per tutte le
spiagge del mondo
esultando e
piangendo, avvinti ovunque
nel crogiuolo
assordante dei mari,
delle terre,
dei soli, delle notti;
ed ogni volta
cadevano affranti
fra le dune e i
cespugli, nel languore
meridiano ed
immoto delle pinete
lacerate solo
dall’urlo
sovrumano della
fecondazione.
Non so
quale forza, quale male,
fu capace
d’oscurare tanta luce;
forse quando
sembravi ancora immersa
nel torpore
meridiano delle pinete
e l’estate
vaporava lentamente
fra il rombo
accidioso delle cicale,
tu stavi già
spiando la fatale
erosione
sotterranea dell’amore,
forse già ti
chiedevi con timore
quanto ancora
si sarebbe salvato
della nostra
morente stagione.
Anche quando
l’autunno nero e forte
agitò come
fuscelli gli alberi
con quel poco
di vivo di noi
e tu seduta a
un’osteria di campagna
con gli occhi
gonfi ed un bicchiere vuoto
scrutavi le
onde del vento
impetuose sui
mari di erba,
eri forse già
intenta a contare
i moti d’agonia
del tuo amore.
Qualcuno
suonava all’organetto
delle vecchie
canzoni di vendemmia
mentre in cielo
correvano veloci
nuvole basse;
presto si annunciava
terribile e
impietoso il temporale.
Ma io per
la vorace voluttà
di sempre più
addentro penetrarti,
di possederti
anche l’anima per non perderti,
ancora ti
suggevo dalla bocca
l’alito caldo,
la linfa, la saliva,
ogni soffio
appena intelligibile
che sembrasse
affiorare dal cuore;
ogni segno di
te ch’io carpivo
mi pareva
conducesse più vicino
all’unisono, a
quel luogo dolcissimo
dove nulla può
più la parola,
ma regnano solo
gli struggenti
teneri
sommovimenti dell’animo.
Custodivo
da solo la mia pena
come madre che
veglia gelosamente
adagiato sul
suo grembo un corpicino
ormai spento,
ed attende paziente
che esso la
sera si risvegli
ad un mondo
favoloso di stelle.
Ma invano ho
scrutato le notti
più serene di
un’altra primavera
per cercare la
buona cometa;
il gelo
dell’inverno aveva ormai
pietrificato di
nuovo i miei fiori
con amore
recisi nel campo
e forse troppo
a lungo serbati.
Poi da
ambigue strade irretiti
e da un torbido
oblio che occultava
la via del
ritorno, fummo spinti
fino ai lidi
più estremi dove il Nord
s’accende di
aurore boreali;
io mi chinai
sbigottito
a toccare quel
mare mai visto
mentre il vento
scagliava senza sosta
tentacoli irosi
di schiume
contro un cielo
che come un re vinto
sembrava
crollare sulle spiagge,
sui gabbiani
rannicchiati nelle buche
e impotenti a
volare, stretti insieme
a contrastarlo
nella vana attesa
della loro
stagione di amori.
La nostra era
già così lontana;
cercavo di
difendermi dal vento
schiacciandomi
fra le dune e i licheni,
straniero a
quel paese e a quel mare,
straniero anche
a quella creatura
un giorno tanto
amata ed ora
dal volto
impenetrabile di sabbia;
io volevo
carpirle un pensiero,
rompere con
tenere parole
quella crosta
di ghiaccio sul viso,
aggredirla
d’amore, rivedere
forse un
piccolo moto di tenerezza;
ma il silenzio
era un baratro terribile
in cui
precipitammo senz’ali
come uccelli
impotenti a volare,
prigionieri del
vento e dei marosi
che spazzano le
spiagge del Nord.
Ricordi le
spiagge di Itaca,
il nido di
struggente tenerezza,
le bianche
distese senza fine
che l’onda
senza sosta ricopre
con la dolcezza
di sposo per la sua sposa?
Almeno non
scordiamo la tenerezza,
noi che amore
ha soltanto ferito
e forse troppo
tardi insegnato
il suo vero ed
antico significato;
se il giusto e
vero modo d’amare
allora ci fu
sconosciuto
e ci tortura
non aver costruito
che fragili
castelli di sabbia,
non serve
vagare sulle spiagge
per ritrovare
la pietra lucente
o le tracce di
parole incantate;
quando un
giorno sarai in mezzo al mare
su una nave che
fugge da se stessa,
soffrirai la
tenerezza perduta
di quell’alito
forse ancora caldo;
serba almeno il
suo ricordo prezioso.
Venne il
tempo di lasciare la casa
alle ortiche,
abbandonarla al suo destino
in un giorno
come un altro di pioggia
dopo avere
bevuto ancora insieme
un caffè, e
averle ancora tenuto
la mano, e aver
parlato senza senso
di tutto o
forse di niente.
Pioveva da
tanto che ogni valle
era un fiume,
gli animali soffrivano
e gli uomini se
ne stavano nascosti
tutti soli col
loro male a ricordare;
ma io
m’apprestavo a partire
seguendo quel
fiume come un nomade,
scrutando una a
una le stelle
che volgono a
Sud per un luogo
in cui
seppellire il mio cuore
ed amare
soltanto a primavera
come fanno gli
uccelli sulle spiagge,
innanzi al
sole, e poi via senza dolore,
senza più
ricordare; oh quella mano
calda nicchia
alla mia così fredda,
che un giorno
ha lasciato la mia mano.
Ma il tempo
tornò ad insidiarci.
O ci parve. Fu
soltanto il caso,
o una sordida
notte galeotta,
che ancora una
volta ci trattenne
nella calda
capanna d’un bosco
lontani dal
fragore del mondo?
Solo un tenue
travaglio di pioggia
filtrava
indistinto fino a noi
fra gli avari
baleni d’un fuoco
che andava a
poco a poco spegnendosi:
ma noi come
inquieti nemici
stavamo di
nuovo fronteggiandoci,
quando a un
tratto non udimmo altro
per un attimo
che il rombo assordante
degli ormoni
che assaltano i sessi
nelle buie
gallerie della carne,
e i presagi
dicevano esser vano
sfuggire al
risveglio di quei mostri
forse
sconosciuti a noi stessi.
Poi all’alba,
alla luce sbigottita
delle stelle
languenti, la mia anima,
che spiava con
tristizia il nuovo giorno
dai buchi del
suo involucro di carne,
non riusciva
più a decifrare
la debole luce
di Dio.
Come ombre
abitammo quella baita
ancora per un
lungo bianco inverno
che si andava
lentamente sfacendo
in una scia
caliginosa di giorni
adagiatisi in
silenzio con la neve
sul sentiero
ormai cancellato
da cui mai
nessuno saliva;
e un giorno
anche il respiro della vita
dovette fermare
il suo moto,
il ruscello
gelato,
gli alberi,
l’aria;
lo sguardo si
perdeva a fissare
il cielo così
grigio e luminoso,
le orme delle
volpi e dei conigli
compagni
silenziosi delle notti
così bianche,
talvolta il riverbero
scendeva dalle
stelle, penetrava
i nostri vetri,
inondava la stanza,
le nostre ombre
abbracciate nel letto,
gli occhi
attoniti, nel buio, senza parola,
notte dopo
notte
giorno dopo
giorno
per un lungo,
intero, bianco inverno,
finché
sopraggiunse la coscienza
d’essere
congiunti in carni assenti,
d’essere chiusi
in casa con la Morte.
Poi se qualcosa
accadde,
in uno di quei
bianchi giorni
che in silenzio
rotolavano a valle,
non so dire;
vidi lei lentamente
mettersi il
vestito della festa,
la vidi
lentamente adunare
le poche cose
rimaste della vita,
la vidi
lentamente scendere
per sempre quel
sentiero che la neve
cancellò dal
mondo dei vivi.
Fu la sorte
di poveri amanti,
dopo che le
piaghe più torpide
seminate da
lunghissimo tempo
han generato il
frutto secco dell’indifferenza.
Ma ora che il
fuoco ha distrutto
anche le ultime
vestigia
di lettere,
foto, pansé,
nessuno più
fruga in quelle piaghe
come lurida
mosca carnaria
per introdurvi
le uova del rancore,
forse verrà
meno la memoria
di quand’era
popolata di fantasmi,
e forse potremo
finalmente
abbandonarci ad
una vita grigia
come fra le
braccia fedeli
d’una vecchia
nutrice che sa amare
pur senza
comprendere parole.
Giorni
neghittosi interminabili
ho consumato a
un vetro di finestra
a spiare
solitarie apparizioni
di animali
sulla neve del sentiero;
così lenta a
morire era la luce
pur effimera
del giorno
e così breve
nelle notti insonni
il conforto del
lume della lampada,
così sorda e
incapace la parola
che invano
cercava d’esser scritta.
Fraticello che
giorno dopo giorno
attendeva al
suo umile cibo,
davo a Dio il
mio inutile esistere;
eppure mi
chinavo ancora
a supplicarlo
della grazia dolcissima
di un altro
delirante uragano,
un’altra scia
d’inguaribili rovine.
Ma un
giorno che il mattino ignudo
era ancora nel
profondo dell’inverno,
un giorno di
un’alba violacea
prigioniera fra
abeti di ghiaccio,
un giorno
ch’ero solo come la neve,
come gli
alberi, la luna, le notti,
e contemplavo
sbigottito il sentiero
da cui non
s’udiva alcuna voce,
vidi gli
Uccelli Neri
atterrati in un
raggio di sole
su una breve
radura gelata
che il bosco
stringeva d’ogni parte
ma l’aria
trasparente dilatava
in sottili
trame di vetro.
Vidi gli
Uccelli Neri
il giorno
ch’ero solo come la neve;
grandi e forti
pascolavano lenti
muovendosi
alteri sulla terra
e drizzando il
capo regale
verso il sole
scarno che a stento
si levava sopra
il gelo dell’orizzonte;
vidi gli
Uccelli Neri
di cui si narra
ma nessuno vide,
quelli che
appaiono d’improvviso
per svenarti
con un morso pietoso
se sei solo
veramente solo,
quando anche la
donna ed il cane
t’hanno
abbandonato al tuo destino,
e tu scivoli
scivoli lentamente
nel sogno della
tua donna e del tuo cane
tutti assisi
intorno al focolare
in un grande
barbaglio di luce.
Quando più
nessuna notizia
giunse a questa
riva del mondo,
non restò che
migrare per mare
con la piccola
vela fedele
fino a un’isola
dalle alture scoscese
dove solo la
luna e le stelle
trafiggevano
insonni le rocce
e le navi
passavano lontane
senza toccarla;
ogni funzione vitale
divenne
elementare, mi nutrii
caparbiamente
soltanto per non morire
frugando di
notte fra le rocce
come i diafani
uccelli notturni
dai grandi
occhi quand’escono dalle tane.
Ma un giorno
l’insperabile accadde,
e allora si
ruppe ogni argine
alla furia
incontenibile dei sensi;
un’eclissi fu
calata sull’anima
che già s’era
nascosta come la luna
e mi vinse
veemente il bisogno
di vedere di
nuovo la luce
seppure
ingannevole del sole,
di nuovo
salpare e rinascere
vivo fra gli
uomini vivi,
amarli ed
odiarli, udire ancora
il canto
sconvolgente delle Sirene.
Ma già senza
forze, penosamente
mi trascinai
alla luce abbagliato
e lasciai
impotente che il sole
corrompesse i
resti del corpo,
come quando,
già freddi ed esangui,
i pipistrelli
vicini a morire
escono dalle
grotte brancolando
per cercare la
luce che li uccide.
Quest'isola
nascosta dalle brume
di ostili
oceani, che svela le sue forme
soltanto a quei
rari naviganti
che per errore
incrociano le sue acque,
ha il nero
parassita della solitudine
annidato fra
gli alberi contorti
e presto sarà
preda dell’inverno;
ascolto
strisciando fra le rocce
le raffiche del
vento che fruga
le ferite
spinose dei cespugli
cui la bieca
volontà di Dio
volle dare un
turpe aspetto umano,
mentre l’aspro
libeccio senza tregua
batte il corpo,
la mente, i pensieri,
che alla fine
esausti di ricordare
affondano
radici in cerca d’acqua
rubandola ai
compagni cespugli.
Eppure voglio
credere ancora
che quando sarà
primavera
e il verno avrà
cessato di ferire
con l’urlo dei
marosi le scogliere
e di nuovo i
germogli del mondo
premeranno
prepotenti la terra,
lei mi cerchi
pallidissima a Itaca,
o dove mai
l’avrà portata il vento,
invano di
ligustro in ligustro,
invano di mirto
in mirto,
e talvolta si
chini a raccogliere
ancora la
conchiglia preziosa,
nostro
portafortuna d’amore.
Invece mi
riempio gli occhi
di questo mare
per strapparmi dalla mente
la solitudine,
urlare agli oceani
da questa
gabbia come cane ferito;
ma non ci sono
né vele né isole
a raccogliere
le grida, posso urlare
soltanto a
serpenti ed uccelli
il mio inutile
nome e cognome
per riconoscere
almeno la mia voce.
Oh, cara,
ho già
dimenticato la tua
così presto,
l’ho lasciata a Itaca
perduta fra le
pietre diroccate
d’un rudere in
cui crescono gli sterpi
e dalle cui
occhiaie spalancate
corrose dai
venti e dalla polvere
si sporgono i
rami d’un fico.
Cara, che
più non ritorni
da una casa che
non è la nostra,
dove tutti alla
tua festa poco a poco
son partiti, o
forse mai nessuno
era arrivato.
Ora forse te ne stai
tutta sola
nelle sale spente
ed hai
riconosciuto il tramonto
dallo stanco
rintocco degli orologi;
forse stai
spogliandoti nell’ombra
con gesti
lenti, l’immagine polverosa
riflessa in uno
specchio; forse anche
ti sei messa la
veste più ricca
ed accendi uno
ad uno tutti i ceri
perché ancora
risplenda la festa
e rivivano gli
ori e gli affreschi;
ti penso,
accomodata con cura
la gonna e i
preziosi merletti,
davanti a una
muta spinetta
circondata da
mobili severi
e felpati
tappeti; hai gli occhi tristi
d’una bambola
di cera, ed attendi
che suoni
proprio l’ultimo rondò,
che volga a
fine il tuo ricevimento,
che finisca
anche la notte profonda
e forse la tua
prima, dolcissima,
vera notte di
nozze e di quiete.
Una volta
vestivi di te
la tua vera
casa già ferita
ma che ancora
cercavi disperatamente
di curare,
nutrire, scaldare;
io assistevo
impotente a tutti i segni
del sicuro
progredire della rovina,
le parole
divorate dai fantasmi,
l’erba che
cresceva sui sentieri,
l’orto a poco a
poco inselvatichito.
Oggi sono vinto
dal timore
quando varco il
tratto di bosco
che porta a
quella casa morta
abbandonata
alla fatale disgregazione
e cui nessuno
chiuse mai pietosamente
gli occhi
stanchi nell’ora del dolore;
ma occorre
imparare la solitudine
con l’esercizio
quotidiano come un male
da sopportare,
un attributo biologico,
anche se
talvolta il silenzio
è così denso da
sentire come schiaffo
il rumore forte
e nero, l’urlo
orribile del
nostro stesso pianto.
Son tornato
lo stesso sul luogo
come fanno gli
assassini; io invece
a rubare solo
un po’ dell’antica
serenità sulla
vetta della collina
dove un giorno
s’è appartata questa casa
come un cane
fedele per morire
dopo avere
perduto il padrone.
Stupisco che
ancora ci sovrasti
il nostro
vecchio cielo e che la brezza
ancora
stormisca leggera
come sempre fra
gli antichi abeti;
ma nessuno
arriva più a visitarci,
nemmeno un
viandante curioso
o bambini per
la caccia alle lucertole,
nessuno più
nemmeno la ricorda:
è solo una casa
abbandonata,
e custodisce
con le buie occhiaie
soltanto un
giardino di rovi.
Ma oggi ch’è un
giorno di festa
ho lavorato nel
tuo piccolo giardino
e ho annaffiato
le tue rose secche,
così se un
giorno forse tornerai
le troverai di
nuovo fiorite.
Mi riposo
seduto sulla soglia
ed ascolto i
richiami amorosi
degli uccelli
nel giorno che finisce;
non c’è più
nemmeno una nube,
l’aria è calda,
un altro inverno è passato;
io non so per
quanti bianchi inverni
può vivere
senza la compagna
l’essere umano,
poi che il flusso del tempo
non si sente né
si può toccare;
quando una
giornata è passata,
lo si sa dalla
brezza che s’acqueta
o dal lume
consumato alla finestra
acceso in una
tiepida sera
per farti un
po’ di luce, se verrai
e forse mi
troverai addormentato.
Quella casa
non venne mai arsa
né abbattuta,
si erge sulla vetta
come un albero,
uno scoglio, una nave
nella tempesta,
e quando il vento cessa
non s’ode più
voce né rumore.
Eppure qualcuno
racconta
che in quella
nave, che galleggia nell’oceano
con tutte le
vele serrate
per non esser
sopraffatta dai marosi,
sia avvinto un
ostinato abitatore,
un giorno fatto
uomo dagli dei
soltanto per
subire la pena
assegnata ai
capitani sfortunati,
che non debbono
lasciare nel naufragio
la buona casa
della loro anima
neppure se si
sono arresi
e hanno dovuto
umilmente
riconoscere la
fine del viaggio.
Ancora
certe notti d’inverno,
quando prendo
timoroso la via
della collina
inondata dalla luna
fra i prati
coperti di ghiaccio
e d’insidiosa
luce mortale
che ti bagna le
membra senza scampo
fino nei
recessi più oscuri
della mente,
penso: attento ai tuoi passi!
non smarrire il
sentiero!
ogni ombra può
essere una trappola,
un agguato teso
fra gli alberi;
se riesci ad
arrivare sei salvo,
anche se la
casa è vuota
senza un
bricco, e la stufa gelata;
se hai paura
tendi gli orecchi:
sono proprio
soltanto i tuoi passi
a scricchiolare
sulla neve ghiacciata?
Non ti serve
stringere i pugni
o l’inutile
coltello che hai in tasca,
chi mai vuoi
pugnalare, quali mai
innocui
fantasmi? se là il fuoco
è spento da
tempo e non c’è mano
che ti regga
pei polsi nell’ora
che t’ha
preparato la Morte,
non temere: il
tuo destino è di regnare
per sempre in
quella casa vuota
splendido e
solitario come un dio
e infelice come
un re prigioniero.
Questa
forse è la notte predestinata
tutta piena di
moti di stelle
che da tempo
aspettavi;
e col ventre
strapieno di vino,
forse per
giocare col destino,
potresti
avvicinarti fino quasi
a sfiorare lo
strapiombo; o forse
non vedere
neppure l’agguato
del sasso
franoso in questa notte
di vino e di
stelle che il destino
ti ha
beffardamente preparato
mentre tutto il
cielo e le stelle
cadono con te
nel precipizio
ma non hai più
timore né orrore,
credi ancora
che tutto sia un sogno,
anche l’ultimo
attimo lucido,
la danza
interminabile fra le rocce
fino al fondo
dove attende la Madre,
bellissima col
vestito da sposa.
Non è forse
quest’ultima notte
una festa di
notte di nozze?
Ora posso
finalmente ricordare
ciò che accadde
in quella casa terribile
posseduta dai
fantasmi della notte.
Per avere una
pietosa guarigione,
si dovette
ricoprire con un velo
la memoria; ma
ora è necessario
ricordare,
sapere chiaramente
alla luce
crudele della ragione
com’è facile
affondare in un pozzo
in cui la pena
ci apre col coltello
la carne
dolente del cuore
mentre le
pareti della casa
si gettano su
di noi come aquile
per schiacciare
l’infelice creatura
in bilico fra
la vita e la morte:
vita e morte
più non si distinguono
e il pianto che
dovrebbe liberarci
non è pianto,
ma tremendo rombo,
una frana di
vetri negli occhi.
Ah quelle
notti bianche
popolate di
terribili sortilegi
in cui cercavo
il nascondiglio del mio letto
ma ero desto,
gli occhi fissi nel buio
ad attendere la
folla silenziosa
dei pensieri
che s’insinuano nel cervello
con le lunghe
propaggini di carne;
io le toccavo
timoroso
e quelle si
fermavano subdole
travestite da
uccelli impagliati.
Eppure i
pensieri eran vivi,
ho tentato più
volte di ferirli,
di mutilarli
col coltello affilato,
di separarli
brutalmente dalle radici
che affondavano
nel cuore della mente
per farli
finalmente tacere,
ma essi
ritraevano i monconi
e mai una
goccia di sangue
gemeva dalle
loro ferite.
In quelle notti
orribilmente bianche
ho temuto di
essere lentamente
accerchiato e
di patire senza scampo
il loro
terribile stupro,
le mie viscere
fatte loro cibo.
Ditemi
dov’è per favore
una splendida
stazione piena di luci
per uccidere la
folla dei pensieri,
per sfuggire
alla trappola della notte.
La stazione è
una grande finestra
con le
inferriate, i prigionieri s’affacciano
ma non
saprebbero neanche dove andare
né attendono
l’arrivo di alcuno,
s’addormentano
su gelide panchine
davanti ad
inutili binari
aggrappati alle
bottiglie vuote
o a un ricordo
improvviso della madre.
Ma noi
prenderemo il treno,
ne arriverà
almeno uno nella notte
per raggiungere
il mare: c’era un’isola
abitata da un
santo eremita,
un giorno
mentre stavo navigando
m’è apparsa
nitidissima e vicina
in un tripudio
di venti e di uccelli;
ma quel giorno
si viveva come bimbi
senza neanche
sapere né chiedere,
e c’era a
carezzarci il viso
ancora qualcuno
a noi caro.
Oggi invece,
quando sarà l’alba
ed io sarò
ancora qui seduto,
mi urleranno
come cani arrabbiati
che me ne vada
altrove coi miei stracci.
Ma all’alba
d’un giorno fortunato
un treno è
partito davvero,
ha amputato la
mia carne viva
da quella
morta, lentamente, sotto un cielo
piovigginoso,
incidendo col coltello
su grovigli di
binari e semafori,
cabine
elettriche, vagoni arrugginiti,
e ancora ancora
grovigli di binari
uno dopo
l’altro con cura
asportati dal
ferro del chirurgo,
quasi nervi,
vene e intestini
d’un corpo che
doveva morire
o guarire. Ma
infine la nebbia
ha inghiottito
tutto il vecchio mondo,
il treno s’è
scagliato alla cieca
sulle pianure
sterminate del Nord
come un’anima
priva di corpo
che cerca
disperatamente il sole
gettando al
vento i resti del festino,
bottiglie
vuote, bucce, cartacce,
e poi con gran
fragore di ferraglia
anche le
carcasse dei ricordi.
Forse è
stata una lunga fredda notte
o forse
un’eclissi della mente,
non so neanche
se giacessi in letargo
oppure con la
forza del serpente
stessi nel
travaglio della muta
distaccando
squama dopo squama
la mia pelle
per ignote metamorfosi
ed ora mi sia
ridestato
animale a me
stesso sconosciuto.
So che fu una
lunga amputazione
durata
primavere ed inverni;
infine si
riaprono gli occhi,
ma ancora non
sono capaci
di vedere i
mandorli fioriti,
le buone
nuvole, i venti di primavera,
c’è ancora la
fatica del serpente
che nascosto
nell’umido fosso
abbandona alle
ortiche la sua pelle.
Forse dopo una
notte di stelle
di nuovo
sorgerà sulla collina
un raggio di
sole mattutino
che trafigga la
farfalla notturna.
Dove prima
c’era ferro e fuoco
ora è un limbo
in cui si spegne ogni moto,
ed è con
meraviglia che ai miei occhi
si dispiega
nello spazio vuoto
fitta e densa
la solitudine assoluta;
essa ha la
consistenza d’un tumore
e puoi toccarla
senza quasi dolore
poi che essa
non è che il tuo corpo,
e il tuo corpo
non è che una pigra
casuale
escrescenza dell’universo
su cui alti
volteggiano falchi
senza un grido,
senza un suono, senza orologi
che scandiscano
ore. Ma intanto
nuovi giorni ed
antiche stagioni
hanno arato e
straziato la terra
e infine
t’accorgi che nei solchi
è nato il buon
seme del pane
e bianca,
silenziosa come un gatto,
è caduta anche
l’ultima neve.
Nella vasta
brughiera mi scuotono
gli spari (o
forse son grida)
di un
invisibile cacciatore solitario.
Oggi un po’
di sole è sorto
a illuminare la
torre del faro
e gli alberi
delle navi pigramente
dondolanti
nelle darsene abbandonate.
Forse s’apre
nei cuori intirizziti
una piccola
speranza di festa,
ma io non so
più con certezza
se l’immagine
bella che un giorno
tormentava
notte e giorno la mia mente
fosse quella
d’una vera creatura;
essa forse è
stata vera soltanto
nelle magiche
notti stellate,
quando fatta
uccello senza tempo
errava fra le
isole e i mari
lasciando ai
mortali la sua scia
come quella
d’una giovane cometa;
ma so che
veramente vero
fu il giorno in
cui ella ci lasciò
col rovello
insoluto dei ricordi
per andare dove
ancora hanno suono
i silenzi
immortali dei venti
e i cantari
nuziali degli uccelli,
immemore del
peso terreno
che avremmo
portato da soli,
il fardello
assordante della vita.
C’era un
faro una volta bianchissimo
sulla punta di
un alto promontorio,
abbandonato
alla fine impietosa
dei re, dove
solo gabbiani
facevano nidi
d’amore
e dove solevo
tornare
per deporvi il
cuore gonfio di naufragi.
Ai suoi tempi
nelle notti di tempesta
era voce
silenziosa di salvezza
e accendeva
tutto il mare di lampi,
mentre barche
lo sfioravano lottando
per non farsi
risucchiare dalla scogliera.
A un pescatore
sfortunato accadde
d’esservi
gettato dal mare
con la sua
barca esausta di vela;
all’alba sulla
spiaggia placata,
fra le grida
ovattate dei gabbiani
e gli echi dei
marosi ormai lontani,
lo vide per
l’ultima volta
la semplice
pietà dei vivi,
il pallido
corpo composto
e la fronte
serena verso il cielo,
un tributo che
agli antichi Dei
piaceva esigere
da giusti sacrifizi.
Ma presto la
risacca cancellò
anche gli umili
segni di pietà;
soltanto
iridescenti conchiglie
in cui si sente
magicamente il mare
ha lasciato il
cuore buono del vento
agli orecchi
stupiti dei bambini.
Un giorno
un amico,
il più nobile e
forte fra tutti,
consapevole
della piccolezza
e vanità della
vita, apprestava
con mano calma
la sua propria morte.
La sua voce era
limpida e ferma:
“E’ inutile
tentare di nutrire
con misere
opere umane
uno spirito
chiuso dentro un corpo
che presto non
sarà che polvere;
abbreviamo
dunque l’attesa
se la vita è
quest’effimera cosa”.
L’amico
calcolava e misurava
la propria
morte; ancora mi ricordo
la calma così
azzurra dei suoi occhi,
le sue parole
mi parevano esatte
come un
trasparente teorema
geometricamente
necessario.
Ma a quel tempo
non sapevo ancora
che qualcosa
gli era sfuggito:
che una sola
piccola grandissima
dolcissima
femmina che ci ama
e che per fini
imperscrutabili ci stringe
fra le cosce
potenti può nasconderci
nella tana
sicura del suo ventre
e contro ogni
legge naturale
d’un mondo
destinato ad esser polvere
può salvare il
nostro Io dalla morte
per farlo seme
che sempre rifiorisce
di uomo in
uomo, di anima in anima.
Dopo la sua
morte silenziosa
io mi sono
ridestato alla vita
come una
lucertola nascostasi
fra i sassi per
sopravvivere all’inverno
quando la terra
si riscalda
al primo tepore
del sole.
Ma dall’alto
della mia solitudine
ancora
contemplavo il mondo
come un cane
coperto di rogna
col timore del
sopravvissuto;
scrutavo da una
vetta l’orizzonte
cercando la
salvezza d’una vela,
invece
d’affidare il cuore
ancora dubitoso
ad un’Elena
stesa
dolcemente al mio fianco,
dopo aver
conficcato la spada
degli Eroi nel
cuore del nemico,
conquistato la
sua giovane sposa,
giaciuto nel
talamo usurpato.
Fu forse il
desiderio di vivere
o solo
l’ebbrezza del vino,
se un giorno mi
credetti invincibile
e in diritto di
rapire in battaglia
la donna
invaghita dell'Eroe.
Ma quando nel
giaciglio segreto
io ero più
avvinto al suo seno,
ecco giunge
portato dal Demonio
a stanarci con
occhi di bragia
l’uomo della
bella sconosciuta,
giganteggia
come un dio furioso
dinanzi al
caldo letto della colpa
e con sconce
parole me la strappa,
la batte e la
umilia, oh! lascio anch’io
senza un moto
senza un grido senza lacrima
che mi batta,
m’insulti, mi schernisca,
poi che ancora
una volta il mio Io,
la mia anima,
il mio corpo, sono morti.
Ora sì, che di
nascosto posso piangere,
mutilato della
bella creatura
entrata a
riempire la mia anima
vuota e
raggrinzita e che al suo seno
come i fiori
risecchiti del deserto
suggeva
sconvolgente rugiada.
Dovetti
fuggire pei boschi
braccato dagli
uomini come lupi
che
m’inseguivano con armi e bastoni
poi che avevo
rapito la Regina,
e io nella
notte di stelle
ancora calda
dei languori impudichi
correvo fra gli
sterpi ed i rovi,
cascavo,
rotolavo, m’acquattavo,
e ancora
correvo col cuore
disperato che
scoppiava in petto.
Oh se non fossi
mai fuggito,
se mi fossi
lasciato cadere
sull’erba,
lasciato calpestare,
e ancora
battere battere battere
finché l’anima
fosse liberata
dagli impacci
della carne e come angelo
sorridesse a
benevoli stelle!
Fui
costretto a riprendere il mare
per fuggire
quel letto insidioso
portando il
ricordo struggente
di porto in
porto di femmina in femmina
per miglia di
oceani finché apparvero
un mattino
splendenti di sole,
quasi fossero
amici velieri
inviati da Dio
ad incontrarmi,
le isole d’un
nuovo continente
e potei
finalmente prostrarmi
su una spiaggia
solitaria il cui sapore
era dolce come
quello della madre.
Ma vidi anche
laggiù, carnosi,
sgranati come
fiori della notte
sbocciati da
invisibili radici,
degli occhi che
mi parvero simili
a quelli che
sempre tormentavano
la mia mente,
antichi come il vento,
come il mare,
la polvere, l’amore,
dolcissimi
occhi impudichi
vestiti di
grasso fulgore
eretti sulla
sabbia assolata
come umidi
fiori del deserto
appena generati
dalla notte.
Ma quando al
tramonto sopraggiunsero
orde assordanti
di venti
a scacciare i
pensieri d’amore
e al cielo con
impeto sconosciuto
controvento
salivano procellarie,
tutto il peso
di piombo della notte
s’abbatté sui
dirupi scoscesi
con la luce
selvaggia della luna
e non fui che
una povera ombra
fra le ombre
abbandonate del mondo.
Seppi allora
che neanche quell’isola
era ancora la
terra promessa
agli Eroi
fuggitivi, né porto,
né grembo
generoso di madre,
poi che gli
occhi lascivi e caduchi
che sbocciano
sulla sabbia fioriscono
soltanto poco
prima di marcire
come i fiori
della notte del deserto.
Ma ormai
ero inerme prigioniero
d’un dolce
ingannevole incanto;
io ancora non
sapevo ch’era Circe
la triste
abitatrice di quell’isola,
quando tutta
rapita mi narrava
di terre
boreali sconosciute
dove anche i
cupi boschi degradando
dal vasto Nord
arrivano a toccare
il mare
dolcemente e il cielo è sempre
nelle tiepide
notti dei solstizi
stranamente
acceso di chiarore,
dove ancora le
foreste sono vergini
all’odore
dell’uomo, e l’animale
conduce la sua
schiva esistenza
lasciando
l’orma calda sull’erba
nel fitto della
selva, ove lei sola
sapeva
inoltrarsi guardinga
con i lascivi
occhi socchiusi
e il passo
felpato della lupa.
Ah Circe, come
ero allora
avvinto d’amore
verginale
alla folle
creatura silvana,
all’arcana maga
che seguivo
passo passo
come un cane fedele;
e infine mi
traesti alla tua tana
che esalava
odori sacrileghi
di dea carnale
e nelle sue latebre
mi concedesti
di spartire il sordido
sconvolgente
animalesco tuo segreto.
Io scrutavo
il mistero impenetrabile
dei suoi
limpidi occhi impudichi,
ogni moto
oscenamente flessuoso
del suo corpo
di felino per cercare
la traccia
d’una luce redentrice,
un senso
naturale che spiegasse
il suo folle
piacere divino
ad esser
posseduta e calpestata
davanti ai miei
occhi stregati
da un’orgia di
porci che imbrattavano
di libidine
ogni piega e recesso
di quella pelle
bianca come il latte;
ma ora che
conosco il vero,
so che era
superba regina
trionfante sui
succubi schiavi,
suoi devoti
strumenti di piacere
cui fiaccare le
menti ed umiliarne
gli organi in
bestiale delirio;
questo era il
cibo sacerdotale
che nutriva la
sua pelle bianca,
le sue spire di
serpente, il languore
terribile degli
occhi di maga.
Eppure talvolta
a me solo,
umile fedele
ministro,
con le stesse
sue mani sapienti
mi offriva in
una coppa le grazie
e i veleni del
suo sesso terrifico.
Ancora non
avevo udito
il suo rauco
grido d’uccello
perforare il
fitto buio delle selve
e salire alle
altezze delle stelle
fino al cielo
siderale del Capricorno;
ma una notte
lunare, d’improvviso
abbandonata da
satiri ed elfi,
mi traversò
come folgore il cammino
e per tutto
l’arco del cielo
ne ebbi
inondata la mente;
tutto intorno
non c’era più segno
della vita
animale dei boschi,
mentre alta e
spietata penetrava
fino al nero
midollo della terra
soltanto la
lama acuminata
d’una cieca
volontà imperscrutabile:
quel grido
d’una forza mai udita
frugò tutti gli
echi delle valli
e riempì la
Casa della Morte.
Fu allora che
in me riconobbi,
piegato a
vomitare il mio orrore,
l’antica paura
dei padri
nascosti in
vulnerabili caverne
e avvinghiati
al giaciglio, in attesa
che si compisse
l’evento mostruoso.
Ma infine
fortunosamente
con l’astuzia e
il coltello affilato
dell’occhio
purissimo del giusto
riuscii ad
aprirle il carapace
di crostaceo, a
scoprirle tutti i nervi
e le vene, le
caverne più nascoste
delle immonde
viscere fumanti;
senza spandere
neanche una lacrima
ho smontato e
dissecato il cuore
del polipo
ambiguo e vorace
che abitava
ogni cunicolo della carne;
poi con salda
paziente intelligenza
scattivando
ogni pezzo accuratamente
le ho amputato
il male dall’anima.
Da troppe notti
sopportavo il fetore
di quell’anima
dipinta di miele
che trasudava
liquame corporale,
che infettava e
sconvolgeva la mia vita
e m’impediva di
salire alla vetta
di quell’isola
sacra agli dei
per bere alle
loro sorgenti.
Liberato,
volli finalmente
ascendere quel
monte consacrato,
purificare la
mia carne contaminata
e abbandonarne
poi l’anima tersa
come aquilone
ai venti delle cime;
perciò sfidai i
sentieri in salita
della macchia
marina impenetrabile,
a poco a poco
mi lasciai alle spalle
anche i radi
bassi cespugli
da secoli
prostrati dal vento,
poi la terra e
i canaloni sassosi,
e infine una
parete rocciosa
rimase a
fronteggiarmi temeraria.
Ma io volli
ancora salire
spinto da
caparbia volontà
di dominare il
mare sottostante;
dall’oceano
Scirocco spingeva
masse
caliginose di nembi,
procellarie si
tuffavano nel precipizio
urlando presagi
di tempesta,
mentre il vento
gelato delle altezze
mi sferzava il
viso e le carni,
che avevano il
colore della pietra
sotto il peso
incombente del cielo;
io salivo
ancora aggrappandomi
tenacemente ad
ogni ruga della roccia,
ma ricordo
soltanto la violenza
della grandine
e i fulmini degli dei
che scatenarono
le viscere della terra
poco prima che
un’estasi mi cogliesse;
e poi più
nulla, poi che giacqui come morto.
Dopo un
tempo non so quanto lungo
riuscii a
riprendere il mare
con la vela
ancora tormentata
dal terribile
Scirocco, alla ricerca
di più benigni
venti ed arcipelaghi.
Un giorno
m’accadde di sostare
nella cala
d’una costa altissima
che sembrava
abbandonata dagli uomini
e da Dio; la
corona delle rupi
ospitava
soltanto uno stridio
di uccelli che
andavano e venivano
come mosche
intente a disossare
una carogna, i
loro echi rimbalzavano
di rupe in rupe
e infine si spegnevano
dentro la
carcassa sfortunata
d’un grande
bastimento incagliato,
ma possente
come un re morente
ancora assiso
sul suo antico trono.
La carcassa
emergeva dal mare
con la prua
rugginosa volta al cielo;
ormai spoglia
dell’antica bellezza,
sembrava
impetrare la pietà
del mio giovane
cuore perché entrassi
a conoscere il
segreto della Morte
sepolto in un
sacello della nave,
ed allora
strisciai con devozione
fra le labbra
spalancate delle ferite
e fu come
penetrare nel silenzio
d’una chiesa
sconsacrata da cui Dio
fosse da gran
tempo fuggito;
vagavo timoroso
di smarrirmi
per cunicoli,
scale, corridoi,
cabine dalle
porte divelte
dove gli echi
dei miei passi risuonavano;
l’acqua entrava
ed usciva dagli squarci
e si udiva
amplificata dall’eco
martellare
senza tregua le lamiere.
Il sacello ove
alfine pervenni
era il cuore
ferito della nave,
il sepolcro
ancora inviolato
del capitano
perito nel furore
d’una notte
senza stelle e senza scampo;
ora dalle
occhiaie del suo teschio
la Morte mi
guardò con la dolcezza
che può donare
al figlio un vecchio padre.
Ma il vento
accrebbe ancora la sua furia
e dovetti
migrare alla ricerca
d’un nuovo
porto che accogliesse la stanchezza
mortale delle
membra, ma anche qui
il vento
penetrava come un gatto
dai mari
vetrosi del Nord
nelle stive
vuote dei velieri
facendo
risuonare crudelmente
le sàrtie e le
vele ammainate
fra le strida
lamentose degli uccelli.
Io soffrivo il
mio inguaribile esilio
nascosto dentro
il ventre della nave,
gemendo le mie
lacrime di vecchio
e spiando da
ogni orifizio
la guerra degli
uomini e di Dio,
quando nel
tumulto mi soccorse
ancora la
dolcezza mai scordata
d’una giovane
potente vagina
accesa di
struggente furore;
allora
abbandonata alla ventura
la mia dura e
vecchia conchiglia
mi gettai come
ghiotto paguro
nei profondi
recessi uterini
col membro che
vagiva e vagiva
risorto dal
letargo, e lei in deliquio
urlava come
scrofa sgozzata
l’orgasmo della
sua fecondazione.
Ma le spire del
vento soffocarono
anche
quest’ultimo furore;
era tardi ormai
per fuggire
la nera
stagione degli uragani,
l’oceano si
gonfiò d’implacabili
acque alte ed
il ventre grinzoso
del mio veliere
fu impotente spettatore
degli eventi
mortali; sulle terre
spazzate dai
marosi, procellarie
fuggendo
trascinavano a stento
le loro ali
incalzate dal vento.
Ormai il
mio veliere è inchiodato
mani e piedi
nel fango del porto
con le vele ed
il legno malati,
i vermi e le
erbe maligne
già ne hanno
divorato la chiglia
con un lento
abbraccio crudele;
ogni giorno ho
lottato con le radici
che ogni giorno
tenaci ricrescevano,
non rimane che
stare nascosti
nel ventre
della nave, soffrire
il suo stesso
inguaribile male
e mai più
rivedere la luce,
soltanto uno
spiraglio per respirare,
non permettere
alle voci sgangherate
di penetrare.
Eppure spero ancora
nella notte col
suo manto di quiete
per strisciare
fuori di nascosto,
invocare il
soccorso d’amici,
scrutare
l’arrivo dei velieri
in un dolce
tripudio di stelle,
quando il vento
generoso delle isole
spazza via i
barattoli vuoti,
le bottiglie, i
sacchetti di plastica;
e forse
gonfierà le mie vele,
liberate dalla
morsa delle erbe.
Finalmente
la notte dei giusti
ha placato le
strida dei villani
e il mondo si
abbevera di silenzio;
posso ancora
contemplare dal boccaporto
le stelle che
splendono al mio paese,
sgusciare dal
ventre del battello
e avventurarmi
sicuro sui moli
per guardare
ancora con amore
tutte le cose
del mondo,
il pesce che
salta sull’acqua,
la bottiglia
che galleggia, il pescatore
assorto con la
canna sotto il faro,
il marinaio che
torna alla nave
col ricordo del
profumo gentile
d’una giovane
puttana a lui cara.
Una volta c’era
anche un cane nero
tutto solo
puzzolente di nafta
legato sul
ponte d’una barca
alla luce d’una
lampada fioca;
quando l’ho
accarezzato
m’ha leccato a
lungo la mano.
Ma se uno
per ventura s’allontana
dal mare amico
forse per seguire
ingannevoli
canti di sirene
e si perde dove
più non ode
il dolce
sciabordio della risacca,
davanti a lui
si spalanca come un Moloc
l’intestino
affamato delle case.
Là si tritano
uomini e puttane,
marinai gonfi
d’alcol e ricordi,
mentre notte
dopo notte si annebbia
la memoria
delle lunghe navigazioni,
degli albatri
che seguivano altissimi
le navi cariche
di vele e di uomini..
Ora attendere
una nave è inutile,
non esistono
terre promesse
ove fuggire:
con gli antichi velieri
sono morte le
anime e i corpi;
anche noi
galleggeremo per poco,
già il mare ci
getta come sugheri
sulle sudice
spiagge del mondo.
Domani i nuovi
poveri correndo
su e giù
frugheranno le spiagge
per raccogliere
resti di naufragi,
vecchie tavole,
bidoni, bottiglie,
più nessuno
attende di trovare
la conchiglia
preziosa da serbare.
Ah compagni
di vino e di baldorie!
arrivava
finalmente anche l’alba
come un triste
mercoledì delle Ceneri
a liberarci
dalle scorie della notte;
le ragazze
della festa frettolose
svanivano
nell’aria piovigginosa,
ancora qualche
canto, qualche piffero,
lontane risa,
quasi grida d’animali,
poi la nebbia
ed il sonno profondo
disperdevano
anche il Carnevale,
le cartapeste,
le maschere, i fantocci,
tutto rotolava
nel fango
col vomito
stupito degli ubriachi
e il disgusto
di sé; solo il Mare
rigonfio di
flutti e di millenni
era il Re
custode della vita
che vegliava
instancabile sul mondo
e ancora oggi
può sciogliere le vele
ai buoni venti
di arcipelaghi lontani;
voi non sapete,
amici,
il profumo
degli arcipelaghi
dove vanno
anche gli uccelli a morire
dopo lungo ed
esausto volare,
non sapete il
profumo del timo,
dell’elicriso,
della terra, della madre;
stanotte non
l’abbiamo udita,
ma il mare ci
ha chiamati lungamente
con la voce
accorata della madre.
Ancora mi
punge un ricordo:
pescatori di
un’isola lontana
prediletti dai
venti di primavera,
che da sempre
son chini a raccogliere
i frutti non
avari del mare
e che in cuore
per antica saggezza
custodiscono il
semplice segreto
del giusto
vivere e dell’onesto morire;
ma il mio
veliere, infelice prigioniero
del furore di
errare, fu spinto
ancora a
fuggirne lontano.
Il sole sorgeva
sull’isola,
e le vele già
gonfie d’un vento
favorevole alle
imprese degli eroi
scalpitavano
impazienti di mare
mentre noi
salpavamo l’ancora
per lasciare
quella gente amica
cara ormai come
fratelli e sorelle
tutti in piedi
sul molo o alle finestre,
qualcuno
nascondendo furtivo
fra i gerani
una timida lacrima.
Quando il sole
era alto a mezzogiorno
la prua si
gettava nel vento
con la cupa
volontà di seppellire
ogni triste
ricordo, con furia
s’impennava a
ogni flutto e con furia
ricadeva sulle
spume ardenti;
ognuno stava
tacito alle manovre
fissando la
scia della nave.
Poi la notte
inghiottì per sempre
anche il caro
approdo remoto
benedetto da
Dio, dove forse
anche uomini
venuti da lontano
avrebbero
trovato un focolare,
una compagna
con cui incanutire,
un cielo onesto
di stelle per morire.
Ma quelli
da sempre prigionieri
di foreste di
cemento e di chiaviche
in cui
s’annusano l’un l’altro come topi
nessuno li
chiama più uomini
poiché mai
hanno avuto radici
né la calda
memoria da serbare
d’una terra,
una casa, un campicello,
un albero di
fico alla cui ombra
fossero
invecchiati i loro morti.
Sono nati, e
subito dimenticati
in grigi
colombai di cimiteri;
non furono
neanche bambini,
solo subito
orribili vecchi,
uno spicchio di
cielo per ciascuno
ad aspettare
impazienti che Dio
giochi a dadi
le inutili anime;
ma poi non
sanno neppure
in quale luogo
andare a morire.
Da sempre
in quel sordido mondo
infuriavano le
ruspe dei potenti
e greggi
infaticabili di uomini
alzavano
alveari di loculi
per metterci le
greggi dei morti;
avevano ormai
dimenticato
che oltre il
deserto di pianure,
oltre i monti
da tempo invalicati,
altre effimere
opere umane,
altri fragili
colossi d’argilla,
come cani
abbandonati dal padrone
la decadenza
distrugge impietosa:
vecchie mura
rovinose sepolte
dalle foreste,
archi statue colonne
ove solo
colombi hanno il nido
soffocate da
sterpi e radici
e lasciate al
lungo sonno della morte.
Io ho violato
il loro sonno antico,
ho varcato
stupito atri muscosi,
percorso
cunicoli sotterranei
che s’aprivano
al sole improvviso
di piccole
radure in cui i miei passi
risvegliavano
frotte di uccelli;
infine m’è
apparso fra i ruderi
acceso da una
macchia di sole
un piccolo orto
ordinato
da cui degli
invisibili eremiti
traevano il
loro povero sostentamento;
ma solo galline
ed un cane
mi fissarono a
lungo con sospetto,
i monaci
rimasero nascosti
nelle grotte
scavate nel tufo
anche quando
chiamai ad alta voce
il loro nome,
che rotolò sulle pietre
e i colombi
fuggirono precipitosamente
dai nidi delle
mura disabitate
con forte
rumore di ali.
Gli uomini
inebriati dalle macchine
caparbiamente
continuarono ad abbattere
i boschi in cui
dormivano i morti
per adorare
sempre più i vitelli d’oro
edificati per
la gloria del cemento;
ogni piccola
tana di volpe
e ogni innocuo
nido d’uccello,
ultime trincee
della vita
per esorcizzare
la morte,
furono
sventrati e calpestati
e calò
inesorabile il buio
dove prima
liberi cavalli
alzavano il
muso dal pascolo
per aspirare i
venti di primavera.
Non restò che
il rifugio sui monti
dove un giorno
con amore erano nate
le nostre anime
inutilmente vissute;
ma soltanto il
vecchio cane zoppo
ch’era ancora
rimasto ad attenderci
venne a noi
uggiolando e piangendo;
poi dovemmo
acquattarci fra le erbe
a contare le
ore della salvezza.
Non ci fu
nessuna salvezza;
la lugubre
marcia meccanica
del cemento e
dei barattoli di plastica
sommerse anche
gli organi nelle chiese
e per monti e
per valli i fratelli
scannarono come
bestie i fratelli,
finché le donne
con l’alvo accecato
non poterono
più partorire
e i cani con le
gole mutilate
legati a catene
di ferro
latravano
soltanto soffi orribili.
Solo allora
tutti capirono
che non v’era
più grembo di madre
che potesse
nascondere a Dio
le ignude
vergogne degli uomini,
né mare in cui
scampare con le navi
al castigo di
eruzioni di lapilli
e portare in
salvo queste anime
incapaci di
scegliere la vita.
Così
giungemmo alle ultime spiagge
non ancora
sommerse dalle acque
ma da cui non
c’era più ritorno:
già troppo
debole splendore
avevano i raggi
rossastri
di un sole
ormai quasi sconosciuto
che non
riusciva ad alzarsi all’orizzonte;
il mare
sgretolava le rive
ed un vento
presago di diluvi
s’era alzato
dall’assedio degli oceani
traendo da
bottiglie vuote
abbandonate
sulla sabbia strani suoni
ingannevoli di
flauto meccanico,
mentre qualche
giglio ostinato
germogliava da
radici corrotte
bevendo anche
l’ultima luce
appena
tremolante sull’acqua.
Io contavo le
ore che restavano;
ma vidi ad un
tratto da lontano
una figlia di
donna che coglieva
i resti di
bambole di plastica
lasciati da
orrendi bambini
che più non
sapevano vivere,
alcuni che
brucavano come capre
grufolando fra
i radi cespugli
la solitudine
fatta di rami
e di foglie
spinose, altri ancora
seduti sulla
sabbia a gambe larghe
con le misere
braccine abbandonate
sul ventre
avvizzito dalla sete.
Mi guardò
soltanto per un attimo
con una luce
intensa negli occhi
poi che più non
conosceva parole,
tutti ormai le
avevano dimenticate;
ma non chiedeva
né acqua né cibo
e il suo
sorriso era aperto come un libro.
Allora fui
contento
d’essere
sopravvissuto almeno un giorno
all’estrema
vecchiezza del mondo
per vedere una
figlia di donna
capace d’un
sorriso umano,
nell’ora in cui
nei cuori cresceva
soltanto il
parassita della morte.
Poi anche
la madre se ne andò
dopo avermi
tanto a lungo accompagnato
anche se ero
lontano,
dopo avermi
tenuto per mano
anche se
credevo d’esser grande.
L’abbracciavo
sussurrandole all’orecchio
“Non è niente,
sono qui, non sei più sola”
perché ormai
sapevo leggerle negli occhi;
ma come un
piccolo bambino spaventato
in cuor mio
soltanto una cosa
avrei voluto ad
ogni costo chiederle
ma non osavo:
“Cos'è, mamma, la morte?”
Ma lei non
poteva più dirmi,
neppure con
l’ultimo soffio
del suo amore,
se è una mutazione
maligna di un
io che si annulla,
o il nuovo
pullulare d’una vita
forse ancora
mai vista sulla Terra;
se è
irrimediabilmente buio
o forse luce,
varcare quel silenzio
che da tempo
l’attendeva fra le sue braccia.
Sai dove
crepano, amico,
quelli della
nostra specie,
animali che
nessuno conosce,
senzadio che la
gente maledice
e la superbia
sospinge lontano
dalla patria,
dalla madre, dalla sorella
e dalla donna
che gli ha dato i figli?
Crepano come
cani rognosi
al di là d’ogni
terra conosciuta,
dove il vento e
la polvere li ricopre
senza un grido,
proprio sulla strada
dove alcuni
dicono si oda
talvolta la
voce di Dio.
Quando sentono
l’ora di morire,
sanno solo
fuggire lontano
per liberarsi
dal maligno incantesimo,
ma appena
s’adagiano per terra
per riposare
solo un istante
restano distesi
nella polvere
in una cuccia
ove nessuno veda.
Forse il
Vero era là dove la mamma
ci aveva
insegnato ad aggrapparci,
sulle vette che
nutrono ancora
i silenzi
trasparenti delle aquile,
alle altezze
ove la coltre di nubi
si rarefà
liberandole dalle nebbie.
Forse alla
tenacia dei filosofi
è dato a poco a
poco di ascenderle
per scoprirne
il segreto, non più appesi
con i chiodi le
corde le unghie,
ma lievi come
sanno salire
le lucertole
che vanno ad attendere
il sole alle
origini del mondo.
Allora forse,
liberati d’ogni cura,
così vicini
alla volta celeste,
riusciremo in
una notte straordinaria
ad esser
sollevati così in alto
da toccare con
timida mano
la parete
dell’Occhio di Dio?
toccare
finalmente il Vero?
Ora forse
mi sono smarrito
fra gli echi di
un sasso rotolato
di burrone in
burrone; sembravano
grida nel
silenzio della montagna;
i pensieri
abbandonati alla ventura
sussultano ogni
volta, si rompono
come bolle ad
un soffio del vento,
se li tocchi
svaniscono nel nulla.
Da tempo
avevamo cessato
di attendere
eventi sublimi;
ma neanche
quando s’odono vicini
i fragori della
Terra che muore,
si sente la
voce angosciata
di Dio chiamare
i suoi figli?
È stata
l’usura del tempo
a farci colare
come cera
in un carcere
di cose quotidiane,
raggrumare
sopra vecchie cianfrusaglie
su cui cade
instancabile la polvere;
il mare, le
vele, la salvezza
sono ormai un
ricordo appannato,
inutile
dibattersi, tentare
di fuggire da
se stessi alla ricerca
di nuovi mari,
nuove terre, nuovi monti,
se perfino
quando trovi un rifugio
da eremita nel
ventre d’una grotta
hai inventato
una nuova prigione
da cui forse
giammai uscire vivo
e in cui covare
soltanto rancore
per la folla
molesta degli uomini,
e dove anche il
suono d’una voce
ti colpisce
violento come uno schiaffo.
Hai tagliato la
radio e il telefono,
hai raschiato
ogni traccia di sentiero
perché neanche
improbabili soccorritori
possano
scoprire la tua tana,
hai voluto che
qui si consumasse
il processo
ineluttabile della vecchiaia;
perché dunque
dibattersi ancora,
aprire le
finestre sulla valle?
Sui campi
abbandonati giace solo
afflosciata una
vecchia mongolfiera.
Le finestre
aperte sulla valle
ed il sonno
della gente onesta;
le stelle, le
lucciole, i campi,
gli odori delle
erbe tagliate,
i rochi latrati
d’una volpe;
questo enorme,
infinito universo
consuma in
silenzio se stesso
e la vita degli
stanchi spettatori,
mentre i gatti
rubano il cibo
ai poveri
avanzi degli uomini
e le bestie
ruminano inquiete
nel cuore delle
stalle; dovunque,
nel verde
respiro di pianure
o in fogne di
città popolose,
la fatica di
vivere, il timore
della morte nel
tuo grande letto
e i pensieri
inquieti di chi veglia,
la sigaretta
accesa, la bottiglia
del vino, la
tavola con le briciole
di pane
dell’ultima cena.
Tre
castagne tre noci una mela
ed una buona
fiasca di vino
un giorno mi
strinse nella mano
una donna
dicendomi addio;
volevo andare
da solo per il mondo
con soltanto il
mio vecchio organetto
per cantare
sulle piazze e sulle strade
le vere storie
della vita e della morte
fra la gente
che arriva da lontano
coi bastimenti
pieni di speranza.
Io mi sarei
accontentato
anche solo
d’una stretta di mano,
ma se
m’avessero aperto le braccia,
il mondo
sarebbe rinato
tutto bianco
come un grande Natale,
e forse dalle
mie rovine
sarebbe uscito
ancora un uomo vero;
sarebbe andato
come Santo Francesco
a parlare alle
genti d’amore.
Ma io ero
ancora così pieno
del mio amore
terreno, mi colava
dalla carne
come linfa di albero,
pendeva
golosamente dal corpo
come umido
frutto maturo.
Ora che anche
lui m’ha abbandonato
sto chino in
questa landa come un albero
inchiodato alla
sua croce di radici
e non so dove
nascondere l’anima
così timorosa
di stelle.
Dio ancora non
mi ha dato un segno;
soltanto nostra
madre Morte
alleva i suoi
figli diletti
per l’ultima
penosa metamorfosi.
Eccomi, allora,
Madre mia,
il tuo figlio
ignudo come allora:
cederà senza un
lamento al tuo volere.
È con
queste parole che ho scritto
l’ultima pagina
d’una lettera
prima
d’apprestarmi di buon’ora
al viaggio più
lungo e periglioso.
Ho governato
per l’ultima volta
e accarezzato
piangendo il mio cane,
e sono andato
senza fare rumore
così lontano
che si vedono vicini
gli oceani
della luce celeste.
Ma un’anonima
notte meretrice
m’abbraccia
senza neanche conoscermi
per nascondermi
in un utero vuoto.
All’oasi
d’Abu Assan
non mettere mai
piede, viaggiatore
che smarristi
la via delle comete,
làsciati
infuocare dal sole,
disseccare
orribilmente dalla sete,
oppure in una
tana di serpe
attendi la
grande Liberatrice.
All’oasi d’Abu
Assan
tutto risplende
e verdeggia,
ma è solo
apparenza ingannevole:
le chiare e
fresche acque cui ti abbeveri
brulicano di
larve mostruose,
i dolci frutti
trasudano veleni,
perfino gli
indigeni che strisciano
silenziosi ed
ambigui per vegliarti
al giaciglio in
cui ti sei abbandonato
esausto e
dubbioso sotto le stelle
sembrano cani
fedeli
accucciati
silenziosi ai tuoi piedi,
e invece ti
tengono in pugno
nutrendo la tua
debole volontà
coi tè di erbe,
le nenie, le danze.
E’ la droga
delle notti dell’oasi,
che consuma la
mente sconvolta
coi segreti
fruscii degli animali,
i lamenti dei
palmizi, gli improvvisi
tonfi dei
frutti che cadono,
gli incessanti
ululati lontani
degli inquieti
animali del deserto.
E’ un mondo
sterminato di notti
e di stelle, tu
le conti insonne
per opporti al
delirio che avanza;
ma anche quando
credi che la mente
sia serenamente
sgombra,
è una pausa
crudelmente fugace
del male
inesorabile che ti logora;
non puoi più
sollevarti dal giaciglio,
fuggire,
attraversare il deserto,
cercare un
medico, un uomo, un tuo simile,
così ti lasci
giorno dopo giorno
nutrire con i
tè di erbe,
i frutti
velenosi, l’acqua putrida,
per avere
almeno un filo di speranza
di
sopravvivere; poi scrivi un messaggio
di soccorso e
avvertimento agli amici
che credi
t’attendano ancora
e la consegni
nelle mani d’un servo
anche se per
certo sai ch’è infido
e che la
lettera solo per un caso
inverosimile,
dopo molti, molti anni
giungerebbe ad
increduli amici
distratti dalle
cure quotidiane.
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