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Da tempo vado proponendo un recupero del ritmo e della metrica come elementi indispensabili alla scorrevolezza del testo e quindi all'efficacia della sua declamazione. Questo termine non deve essere considerato né buffo né antiquato, dato che la declamazione è parte integrante dell'espressione poetica. Contrariamente a quel che si crede, essa non è assolutamente collegata alla recitazione di un attore: anche il lettore perfettamente silenzioso, il quale legga con la mente e non con la voce, in realtà dentro di sé declama, perché declamare significa dare espressione emotiva ai segni della parola scritta che contengono le emozioni solo potenzialmente; significa assecondarne la musicalità, leggere insomma "con sentimento", come ci raccomandava la maestra alle elementari. Quando la declamabilità della poesia viene meno, a causa di un ritmo zoppicante o addirittura manchevole, ci si trova con disappunto inceppati. E' fuor di dubbio quindi che peculiarità della poesia, rispetto alla prosa, sia la musicalità e quindi la sua declamabilità. Lungi da essere un fatto secondario, o un orpello superficiale, o un segno di frivolezza (come vorrebbero certe mode artificiose che chiameremo dell'anti-poesia), la declamabilità è proprio la condizione da cui dipende l'efficacia della comunicazione. In un genere infatti dove il messaggio è, molto più che nella prosa, concentrato e spesso affidato al semplice accostamento di parole, dove quindi le parole dovrebbero essere incastonate con molta più esattezza per raggiungere determinati effetti espressivi, si comprende come una sospensione di capoverso poco indovinata, o un accento che si appoggi su di una parola anzichè su di un'altra, possano cambiare radicalmente il risultato espressivo. Si è parlato di ritmo e di musicalità e dobbiamo subito sgombrare il campo da ogni ambiguità circa i significati di queste parole. In poesia la musicalità è chiaramente metaforica, dato che non esistono note musicali; della musica essa mima solo il ritmo; il quale non è altro che una sequenza cadenzata di accenti che assecondi talmente bene la posizione che questi hanno usualmente nella lingua parlata, da assicurare la perfetta scorrevolezza della declamazione. Questa può essere esaltata mediante particolari risonanze e consonanze di rime interne ed esterne; resta tuttavia il fatto che, in poesia, scorrevolezza, ritmo e musicalità sono la stessa cosa e si parla di musicalità anche in assenza di rima. La musicalità ovviamente non è sufficiente a far poesia; occorrono soprattutto validi e interessanti contenuti (ed è proprio ciò che oggigiorno difetta); tuttavia, per aversi musicalità è necessaria una accorta disposizione dei sintagmi. Ricordo che il sintagma è una combinazione semplice di elementi della catena parlata, composta da una parola principale, su cui appoggia l'accento dominante, ed elementi per così dire satelliti, sul cui accento si sorvola, cosicché la lettura viene fatta senza stacchi fra gli elementi costituenti. Esempi: "controtùtti", "sopralapànca", "ilrestodell'òlio", "ogniqualvòlta", ecc. La scorrevolezza musicale della poesia si ha appunto quando ogni sintagma, scelto con il suo abituale accento dominante, è inserito nella sequenza dei versi in modo da assecondare, e mai contrastare, il ritmo naturale dell'eloquio; esaltando così, insieme alle pause di cesura e di capoverso, la declamabilità del testo e quindi l'efficacia dell'espressione. Per contro, anti-poesia è quella "cosa" che non tiene in alcun conto tutto questo. Ebbene, in questa nota voglio mostrare agli anti-poeti sperimentalmente (lo scienziato perde il pelo ma non il vizio), facendoglielo cioè toccare con mano, ciò che perdono quando trascurano questo aspetto niente affatto formale della poesia. Naturalmente, mi occorre una cavia di anti-poeta. Sceglierò allora Rossano Onano, anche perché, conoscendo egli la stima che ho della sua persona come anche della sua poesia, credo che non vi sia pericolo di... bastonature. Rossano Onano infatti è un vero poeta, ma purtroppo si camuffa, forse per snobberia, da anti-poeta. E' un poeta narrativo, e questa è una proprietà che oltre tutto lo fa distinguere dalle miriadi di lirici che usano la poesia come sfogo privato dei loro affanni o per ragguagliarci sulle più o meno sofisticate vibrazioni del loro io. Onano no: ogni sua "poesia" è un piccolo raccontino ricco di notazioni esistenziali, che egli peraltro ci inocula con grande leggiadria, quasi senza che ce ne accorgiamo. La narrazione, che egli sembra avere nel sangue, è straordinariamente distaccata, così assolutamente priva di pathos da essere ora ironica e ora caustica, anche nei momenti più "seri", dove è maggiormente percorsa da una sorta di puntiglioso delirio intellettuale visionario, che senza parere e con un linguaggio che potremmo definire vagamente "parodia di quello burocratico", ci immette in atmosfere deliziosamente surreali. Non succede mai che sbottoni i sentimenti; eppure non li nasconde, anzi li sciorina ad ogni pie' sospinto; il trucco è che li guarda come se non fossero suoi, li guarda addirittura divertito, con un distacco appunto burocratico; e tuttavia una sorta di suspence ci costringe spesso a vedere ad ogni costo come va a finire la storia. Lo potremmo definire insomma, con un'unica espressione, un aristocratico intellettuale; ogni suo libro è un tale spasso, che si chiude un occhio perfino su una certa sua inclinazione all'oscurità, triste retaggio dell'ermetismo. Ma guardiamo ora il rovescio della medaglia. Ogni volta che mi avvicino a un suo libro mi sento lacerato fra due sentimenti. E' vero che sento molto vicino al mio il suo contorto e contorsionistico elucubrare sulla natura delle cose e degli uomini. Ma è anche vero che i suoi "versi" offendono ogni forma di metrica, ritmo, scorrevolezza, declamabilità, musicalità. Se egli si rassegnasse alla prosa, non susciterebbe l'animosità di nessuno; ma egli si ostina - dato che i suoi contenuti esistenziali sono quelli d'un vero poeta - a dare forma di versi ai suoi raccontini. E' tanto che me lo chiedo e finalmente lo scrivo: perché mai quel modo infame di spezzare i versi, spesso nel bel mezzo di un sintagma (che per definizione è semanticamente indivisibile) e perfino - orrore, orrore! - dopo una congiunzione (che evidentemente non può più congiungere niente)? Ma poi, quali versi? Arrivo a capire che uno - per una sorta di pudore antiromantico - rifugga dalla musicalità del "taratàn-taratàn-taratàn"; ma c'è un limite a tutto. I suoi non si possono chiamare versi, perché al massimo sono lunghissimi paragrafi, anche se, come paragrafi, non se ne capirebbe la funzione. Ho già scritto altrove che, quando il verso è lunghissimo, né l'occhio né l'orecchio sono più in grado di riconoscere il punto in cui possono fermarsi per riprendere fiato (anche nella muta lettura bisogna riprendere fiato!) e che tale incertezza si traduce in uno sgradevole inceppamento della lettura. Insomma: se non c'è uno straccio neanche accidentale di ritmo, se il capo di paragrafo (si può chiamare ormai solo così) non sottolinea alcun particolare sintagma e tanto meno ricalca la sintassi (quindi non aiuta neppure a decifrare la struttura del periodo, quando pure ce n'è uno), a che serve spezzare il verso proprio in quel punto invece che in un altro? Si tratta purtroppo di un male generalizzato e insipientemente propagandato perfino da illustri autori che vanno per la maggiore; forse questi anti-poeti si illudono di trasmettere, con le sgradevolezze di questi tagli, un senso di poesia ispida, scostante, inavvicinabile, appunto di anti-poesia; ma questo atteggiamento bislacco e gratuito non dona niente né alla poesia di Onano, né a quella degli altri, come mostrerò fra poco. Quella di Onano ruota tutta sull'arguzia di contenuti cerebrali; e questi non cambierebbero per niente, se ad esempio egli scrivesse tutto di seguito, alla maniera della cosiddetta prosa poetica. Insomma chi gli vuol bene non può assistere impunemente allo strazio ch'egli fa della sua genuina poesia. Anche per questo l'ho scelto come cavia: in fondo al cuore coltivo la segreta speranza di redimerlo. Passiamo ora all'esperimento. Apro una pagina a caso, e neanche la migliore, la 48, del suo ultimo libro Il senso romanico della misura, Edizioni Tracce, 1996. Ecco il testo originale prima della cura:
Trasformiamo ora il brano in "prosa poetica" ignorando i capoversi e scrivendo tutto di seguito; vediamo se il risultato è veramente tanto diverso: Le anime formano una fila lunga bianca, hanno sopra la fronte una sottile benda stretta, cantano sommessamente, si tengono per mano, la trasparenza è tuttavia pervasa da un herpes doloroso, a macchie metameriche, viola come sulla tovaglia il vino travasato, avanzano lentamente, incontrano barriere architettoniche coperte di manifesti colorati, poi finalmente una muraglia libera, la oltrepassano sollevate, solo l'ultima anima piccolina apre la porta, chiede permesso... Ma ecco la versione dello stesso brano "dopo la cura", con l'adozione di una spezzatura un po' più accattivante e un uso più moderato dell'enjambement. Non ho voluto toccare nulla, perciò i risultati sono limitati, dato che i sintagmi, col loro accento dominante, non sono stati inseriti ad hoc dall'Autore nel contesto ritmico dei versi. Con qualche aggiustamento si potrebbe migliorare; ma credo che basti lo stesso. Forse qualche anti-poeta rabbrividisce, immaginando se stesso trasformato in un borghese, ahimé, tradizionalista e codino. Ma io insisto, spietatamente, per il vostro bene, o terribili anti-poeti!
Lascio giudicare ai lettori, poeti o anti-poeti che siano. |
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