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Stefanoni, un poeta dell'anima
nel sabato del silenzio del verbo
Gian Piero Stefanoni si colloca con la sua poesia di Roma delle distanze
in una dimensione del sacro pervaso dall’ineffabile. In effetti è come se i
diversi topoi nei quali nasce la poesia di Stefanoni fossero in e
nello stesso tempo distanti da Roma, così come in e distanti dagli
altri luoghi, in cui vi è stata l’illuminazione che verticalizza la parola
incontro al Divino.
Una presenza che è anche assenza, perché distanzia dal luogo
per traghettare in Altro Luogo. Il poeta vive nell’orizzonte geografico della
Città Santa e si muove tra le strade e i monumenti canonici, tra la pletora di
persone più o meno conosciute, ma sempre porgenti quel volto creato a immagine e
somiglianza di Dio. E in quel volto, ogni volta, c’è un’accensione d’amore di
benevolenza di carità di comprensione che apre la porta al Volto sacro della
luce divina, permettendone supplica e ringraziamento in una repentina
verticalizzazione. Luce comunque accecante che incanta il poeta al punto da
strozzare il canto, spezzato da un ineffabile che apre al mistico.
Ecco che il
dettato di Stefanoni, salmodiante come preghiere che si levano ex abrupto
nella realtà di una città nelle vie nelle case nelle chiese davanti ai
monumenti, si risolvono in una rarefazione di significato che sfugge al logos
razionale per dare senso di controcanto alla comprensione del cuore estasiato
ogni volta dalla contemplazione dell’oltre materia dell’Essere per antonomasia.
Poesia dell’anima, pertanto, quella di Stefanoni, che platonizza in qualche modo
il suo sentire. Ed è questo il punto di forza, ma nello stesso tempo di
debolezza, del dettato poetico di questa raccolta. Perché, se da un certo punto
di vista il dettato si snoda su un filo rosso etereo, ideale, luminoso, pieno di
anima e di contemplazione, che trascende la realtà concreta dell’empiricità,
dall’altro non riesce bene ad incarnare la parola corporea e materica nella
realtà fatta anche di miseria di buio di sofferenza che riporta al mistero della
Croce. Ma questo proprio perché il sacro per Stefanoni, come per una tradizione
che va da San Francesco a Wittgenstein e oltre, è l’ineffabile, il mistico, nel
quale spesso se non sempre la fede può fare a meno della ragione. Non può però
fare a meno, come in questo caso, della poesia, che nonostante alcuni momenti di
ermetica cripticità riesce a fare ben comprendere l’intenzione dell’autore che è
soprattutto il senso del sacro.
La poesia di Stefanoni si colloca nella
tradizione della poesia religiosa cristiana a partire dal Medioevo con San
Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, per arrivare al Novecento con poeti come
Carlo Betocchi, Clemente Rebora, Giuseppe Ungaretti, David Maria Turoldo, Paul
Claudel, Charles Péguy, Jan Jakub Twardowski. Ma la cifra dell’originalità della
poesia di Stefanoni mi sembra di poterla cogliere nella sua aderenza
all’estetica di uno dei maggiori teologi del Novecento, Hans Urs von Balthasar,
che scommette su una teologia incentrata sulla forma, alla Goethe, facendola
transitare attraverso la sua negatività più assoluta, kenotica, del sabato, nel
silenzio del Verbo. Stefanoni, lo abbiamo detto sopra, sposa l’ineffabile,
ovvero questo silenzio del Verbo. E mettendo al centro della sua poetica il
soggetto trascendentale opera quella filigrana nella quale centra la
relazionalità come distanza e nella distanza, nella quale si apre
il luogo del mistico, che poi è il non-luogo dell’io caratterizzato da una
soggettività vuota e nello stesso tempo piena perché ac-cogliente.
03/11/2011
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Recensione |
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