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“Sintetizzare il senso del
nostro stare al mondo potrebbe apparire in rapida successione sia il coraggio di
riuscire a smontare pezzo dopo pezzo tutti i cliché che trasformano l’incubo in
ricostruzione delle testimonianze, sia il tremore e lo sconcerto di chi continua
ad accostarsi all’universo vivibile per raccontarne le bizze e i disincantamenti,
le inquietudini e le difficili trappole.
Quel che conta, per la verità
letteraria, non è tanto l’etica o la morale, la narrazione o la rima, quanto il
proseguire nella qualità dell’espressione con rigore e logica, tali da imporsi
all’attenzione, vuoi nel gusto della provocazione che nella capacità di situarsi
nelle unità perfette della pagina. L’onda si fa più spezzata e melodica nelle
combinazioni scoperte del verso in quella equilibrata dinamica che si nasconde
fra la necessità dell’oblio o dell’abbandono, e fra le immagini di tensioni e
urgenze, che il “corpo vivo” dischiude al lettore, inquietante teatro, ove non
esiste scena se non nell’ alterno dialogare. Inutile accantonare figure che sono
state raccolte durante il silenzio, cintato da mura che tutti hanno creduto
sterile e senza incanto. Inutile scomparire dietro i polpastrelli, come se la
vita si tirasse indietro a numerare piastrelle senza più colore. “Come un
richiamo di cane | al mondo inteso, ricompone | l’uomo la falla | dei vent’anni non
suoi” (pag. 70) è sempre l’uomo che pone interrogativi, che accoglie soste e
cadute, turbamenti e problemi in un dialogo che non ammette fratture, per non
complicare ulteriormente l’improrogabile ed indecifrabile messaggio della
sopravvivenza. “Non si risolve l’anima in sogno, | né il sogno risolve.
| Ai cari
panni attendi | in assenza di quiete. | E sei come scarto | che s’apre e chiude,
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da non nominare..” (pag. 57). Appare chiaro, in queste pagine di Stefanoni, il
concreto approccio con una natura smitizzata dal suo fulgore romantico per
rincorrere, tra concretezza e astrazione, l’arbitrio delle forze esterne, con le
quali si riesca ad incarcerare la violenza del non detto e l’azzardo del
subconscio.
“Il corpo del titolo – scrive Mariella Bettarini nella
prefazione – è davvero un duplice corpo: quella corporeo e quello della parola,
non il corpo diviso di tanta poesia attuale”. “Sono come corpi raggiunti in
carità di luce o spazio, che rivolto a sé mondo riafferma- la morte una pagina
in sala d’aspetto sfogliata” (pag. 53). Il legame ancestrale non è più
un’astrazione: sorveglia, testimonia un’antica religio, quasi una
fiaccola nel flusso di parole naufragate, e attraverso le quali raccontare la
singolarità del proprio sgomento”.
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Recensione |
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