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Le stanze del cielo
In tempi così avari spesso viene imputato ai poeti un’assenza grave riguardo
alcuni temi ed urgenze del vivere civile, come se poi far poesia fosse come far
politica. Però, io credo, che davvero (da tempo) stiamo correndo il rischio di
smettere di interrogarci sulla natura e gli effetti di tutto ciò che
gradualmente nel nostro paese, e in noi stessi, si va sgretolando sulla base
della negazione dei valori più elementari. La poesia per il carattere e la
lingua che le è propria, nutrendosi di immagini, è rivelatrice per immediata
relazione e ciò che nomina è il mondo, “quel mondo” che sempre per emozione
appare. Per questo, ribadendo ciò che già ho avuto modo di sottolineare altrove,
è la conoscenza più profonda.
Ed in questo, dunque,
Le stanze del cielo trae
la sua forza. Perché il poeta ancora c’è, è presente e risponde ed agisce con i
suoi strumenti. E, d’altronde, lo sfinimento, il processo di cancellazione del
carcere (o più ancora della tossicodipendenza) come puoi raccontarlo se non per
immagini? Di quegli uomini a Ruffilli interessa l’animo, la corporeità di
quell’animo nei momenti di massima solitudine e di massimo rischio. Ed
ovviamente lo fa senza cadere in alcun giudizio se non, piuttosto e
necessariamente, nella sottolineatura di una visione esterna un po’ manichea
dove chi cade cade per sempre, mostrando, tra l’altro, le contraddizioni di un
sistema carcerario che, pur avendo logiche altre rispetto al mondo fuori, di
quel mondo, di quella società finisce col riprodurre gli stessi meccanismi di
divisione e differenza, se non di veri e propri privilegi (“L’avvocato”). Ma se
fuori certe dinamiche possono anche restare sopite nel gioco delle apparenze e
delle strategie, qui esplodono in una violenza che all’indifferenza alterna
piccoli e grandi soprusi fisici e verbali, intimità strappate ed esposte entro
quadri di dignità negata (“quasi un odio di classe”, “come manifestare/ affetto
o comprensione/ fosse un’infrazione). L’impressione che colpisce è la
scansione quasi diaristica dato coi ritratti, come se, in molti passaggi, si
narrasse di una sola detenzione, dal suo inizio caratterizzato da paura e
straniamento, al tormento del rimorso e della perdita, al reclamo dello
scandalo. Abile è la decostruzione della personalità all’interno di uno spazio
chiuso che nel tempo deforma e ossessiona, si fa tutt’uno con le maglie di una
mente perennemente ferma nella trappola di un solo gesto, o nella mancanza di
ciò che prima l’occhio non poteva scorgere o comprendere (“tutto il dimenticato/
che ti avrebbe invece/ qui salvato”,”quel pesco in fiore/e il suo tornante
rifiorire / che non avevo / mai considerato / mentre ero fuori ”
) .
Impattiamo cosi in un percorso in cui alla deformazione dell’anima si accompagna
una deformazione del corpo, dove solo il male appare cosa viva che come bestia
scherza e divora la sua vittima e dove nella rovina può insinuarsi l’ipotesi
terribile di una libertà quasi metafisica composta anch’essa dal chiuso di una
sola stanza (“In gabbia”). La lingua affonda nel tempo di un labirinto i cui
echi di dolore e misconoscimento sono in parte leniti dalle abitudini e dai
barlumi quasi infantili di una vitalità che, non pensata, a tratti ritorna. Ed
in tutto il testo il merito è l’aver evitato la retorica del detenuto, il
pericolo della simpatia facile, del qualunquismo inverso, purtroppo sempre in
agguato e alla cui fascinazione pochi, tra gli scrittori, sfuggono.
Come detto a
Ruffilli interessa l’uomo. Da lì parte l’eticità della sua poesia, di ogni vera
poesia, nella consapevolezza che ”una sola azione / (..) / non può rappresentarlo /
né tanto meno cancellarlo”. Questi versi ce lo ricordano, come ci ricordano
anche che ogni sana e civile convivenza deve porre radici nei principi di
solidarietà e ascolto (secondo un pieno riconoscimento della dignità di ognuno)
e che a quell’ascolto tutti noi siamo sempre chiamati anche se non direttamente
coinvolti. Così il discorso sul problema della giustizia e sulla carcerazione
diventa principalmente un discorso su noi stessi, sulle nostre mancanze e le
nostre deficienze, sulle nostre paure che, se non affrontate e trincerate nel
pregiudizio, arrivano a precludere, a paralizzare la nostra capacità
d’attenzione. Lo stesso tema della sezione che segue, “La sete e il desiderio”,
quello della tossicodipendenza, completa e rafforza questo registro. Perché agli
occhi degli altri il tossicodipendente, spesso, occupa un gradino anche più
basso rispetto a quello del detenuto a cui si può perdonare qualcosa. E forse,
sì, sta davvero più in basso, nel senso di rovinosa, irrimediabile caduta. La
lingua allora si fa più bruciante, più sofferta, più dilaniata e dilaniante,
fondendosi a quell’eroina e a quel sangue in un contorcimento che è quasi
stridio in accelerazione. Vedi soprattutto in “Amante” dove la parola (proprio
come la droga) sembra possedere e inghiottire quel corpo che descrive dal
desiderio fino ad un annientamento che è nel dominio del precipizio più che
nella morte. Fosse noia, curiosità o provocazione, alla base della scelta
l’autore identifica il dolore nella sua totale impossibilità di luce (“..l’anima
in cambio/ della sua luce / intermittente/ in campo aperto”) ed è forse per
questo che la pietà e la rabbia qui sono più evidenti e la carità di scrittura,
per contrasto, più urgente.
Se ne Le stanze del cielo l’ andamento pittorico
ricorda certe sequenze di Bacon, la corporeità della seconda parte può riportare
a qualche scritto, a qualche striscia degli anni ’70 (Pazienza) fino a parer
sfiorare qualcosa di Goya. Ma a cucire le due condizioni, quella del carcere e
quello della droga, sono due versi di “Inferno” (nella prima parte): “Può
darsi mi sia/ soltanto ribellato / di non avere / un mio futuro ” . E’ questo
forse lo spartiacque , il
discrimine, l’inciampo di “piena fioritura/ su cui di colpo/ precipita
l’inverno” tra responsabilità del singolo e coscienza collettiva? Fatto è che la
consapevolezza di non esser più padroni di se stessi, della propria “regia”,
in “Scappare ( testo con il quale non a caso credo si chiude il libro)
sembra farsi tragico e finora inconfessato appello: “ Vorrei lasciare/ adesso,
sì, l’inferno/ del tempo mio perduto,/cercare di levarmi/ giù dal volo,/ma non
riesco/ a smettere da solo”. A noi allora (e prima di ogni caduta)
raccogliere questo grido, rovesciando e smentendo l’assuefazione ad un’idea di
futuro impronunciabile, raccontabile se non nei suoi termini di deriva e
assenza. E’ questa l’indicazione decisa che esce da queste “Stanze” ed è questo
che ho maggiormente apprezzato, per identificazione, del libro.
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Recensione |
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