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Poesia che aspira
alla concretezza del teatro, o teatro che prende le forme della poesia, per
esprimersi mediante simboli e immagini? E' questo il grande dubbio che sorge
davanti all'ultimo libro di poesie di Liliana Ugolini, Gioco d'ombre sul sipario
(ut fabula poesis), il cui titolo, tuttavia, già offre delle indicazioni. Se si
guarda alla biografia di Liliana Ugolini, si comprende quanto il teatro abbia
significato per la sua scrittura; pur avendo pubblicato molte raccolte di
poesia, moltissimi sono anche i testi destinati alla messa in scena. Ciò vuol
dire che nella poetessa vige un'indubbia vocazione teatrale. Se si torna al
significato simbolico evocato dal titolo, il sipario chiuso evoca una
trasformazione dell'arte teatrale. Teatro dunque nella forma poetica, teatro cioè che rinuncia allo spazio scenico, a ciò che si vede, per comunicare ed
esprimersi solo mediante parole. Teatro-poesia, quindi, e non poesia-teatro come
è stato detto.
In effetti spesso i
versi si presentano come semplici didascalie, semplificati come sono in una
forma descrittiva, quasi che la poetessa volesse mostrare al lettore una realtà
fenomenica. Ecco un esempio lampante: «Cielo sommovimento | ossimoro di mare che
risale | cascata falda fede di sé | scintilla di cadenza interrogazione |
rifrazione corrente l'invisibile | iniziazione». Versi in cui emerge evidente
l'uso di uno stile nominale, con la presenza di un'unica espressione verbale tra
l'altro con significato di aggettivo, una scelta parattatica, che appunto
testimonia il senso descrittivo e oggettivo del brano.
Che sia il teatro a
mimare il linguaggio poetico e non il contrario, è anche rivelato dal
progressivo decadere della presenza verbale. E' come se in queste poesie le
parole stessero sempre lì lì per scomparire, per cedere il posto all'immagine, e
soprattutto all'azione, che è appunto l'elemento di differenziazione basilare
tra l'arte teatrale e quella letteraria. Tutto ciò spiega anche la predilezione
in questa silloge della poetessa per un personaggio particolare, il mimo. Nel
mimo la parola cade, e l'azione, che la letteratura ha da sempre reso dipendente
dalla scrittura, riprende il sopravvento, esattamente come avviene a teatro.
Certo, sembra un
controsenso, perché in fondo ciò che noi troviamo sul libro sono ovviamente
parole. Vi sono alcuni versi, tra l'altro citati anche da Gio Ferri nella
postfazione critica al volume, che meglio di altri possono contribuire a
sciogliere questo nodo: «Memoria e tempo formarono la scena | dove imparo la
parte mai imparata. | Sgambetto dal mio filo e il palco si fa scuro. | Di
parole ho mente e bocca piena | e non mi serviranno per capire. | L'inchino è
riservato a quel Supremo | che il sipario m'aprì per la Commedia». E' la recita
della vita, questo spiega la mirabile metafora della poetessa, ma in questa
scena che un Dio ci ha dati, parlare none capire; «la parte mai imparata»,
quella che ci aiuterebbe a capire, e comunque quella del silenzio.
Nel piccolo poema
in prosa La parola e il silenzio la Ugolini ci offre forse, nascosta tra le
maglie di una fiaba surreale, un'ulteriore risposta a questi interrogativi.
Protagonisti del racconto lirico sono un cavallo costretto a trasportare parole
pesanti e un saltimbanco che scopre la salvezza proprio nell'assenza di parole.
Il saltimbanco è come il mimo: è libero dalle parole. Ma attenzione: le parole
di cui parla Liliana Ugolini e che lei pone sotto accusa in nome
dell'autenticità del teatro, non sono evidentemente le parole della poesia, che
non solo parlano, ma esprimono profondamente.
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Recensione |
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