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Pietre
Ho avuto la fortuna di conoscere Giovanni Di Lena dieci anni or sono in quel
di Valsinni (Mt) nell’ambito del premio letterario Isabella Morra, organizzato
dall’associazione culturale Magna Grecia Lucana. Leggendone le liriche mi resi
rapidamente conto di trovarmi di fronte un poeta vero, in grado di trasmettere
emozioni profonde con quei suoi versi di dolore e di denuncia del costante
sfruttamento, decennio dopo decennio e governo dopo governo, della propria
terra. Un canto, ora grido di battaglia ora quasi epicedio, che permea l’intera
opera dileniana senza cadute di tono o di stile. In tale ottica si inserisce
anche questa nuova raccolta sin dalla lirica introduttiva, nella quale alla
dilagante “prostituzione morale”
Di Lena oppone la millenaria forza
purificatrice delle sorgenti d’Elicona: “Tu, Poeta, rinvigorisci
/ placando la
tua sete / alla fonte della Musa” (al Poeta). In nodi l’autore
rievoca le ingiustizie subite in vita dal padre e nella chiusa ci regala
un’immagine che travalica i confini della sfera famigliare per incarnare la
fierezza e la dignità di un interno popolo da secoli vessato e tradito: “Era
un uomo perbene, mio padre, / ma aveva gli occhi tristi”. Attinge ai propri
ricordi, il poeta, per esprimere il timore di un futuro fatto di miseria: “la
crisi economica mi spaventa. / Negli occhi lucidi della gente / rivedo il bambino
che io ero” (senza veli). Nelle liriche petrolio e il cane
Di Lena denuncia speculatori e affaristi: “e doniamo la nostra pelle / a lupi
di riporto” (versi che rievocano Rocco Scotellaro, il quale in Noi che
facciamo? scriveva “Noi siamo le povere / pecore savie dei nostri padroni”)
puntando il dito contro L’Ente che sta inquinando il lago del Pertusillo.
Afferma il poeta con amara ironia: “e il veleno che dissemina? / Ma che volete
che sia … / è semplicemente parte del pacchetto!”
Lo sfruttamento del territorio viaggia di pari passo con quello delle persone,
come attesta la condizione dei lavoratori a tempo determinato: “Non ci sono
pause / né scambi sociali. / Solo sguardi furtivi / accorciano le distanze” e
ancora “Il Bangladesh è qui, / in questa terra fottuta / dove la mano virtuosa
del padrone / non ti tocca, / ma ti graffia la vita” (salotti express).
In nastro trasportatore dedicata a Giacomo Campo, operaio ucciso
da un macchinario, il grido del poeta si fa rabbioso e in questa sua commovente,
donchisciottesca intifada contro i poteri forti e corrotti Di Lena punta il dito
anche verso chi i lavoratori avrebbe dovuto difenderli e invece ha contribuito a
ridurli in schiavitù: “Un’ora di sciopero: / tanto vale la vita / di un operaio
a contratto dell’Ilva? / Non è stata fatalità. / La morte è contemplata nei
voucher!” e ancora: “La precarietà plasma i princìpi, / sgretola le forze
/
e incatena la libertà. / Custodite nella memoria, le nostre conquiste / bruciano
nella notte” (precarietà operaia).
Significative anche le poesie coefficiente di Gini, R55 negativo
dedicata ad Aldo Moro (“La differenza è sempre nel sangue: / c’è quello
versato per gli altri / e c’è quello succhiato dai vampiri”) e motore in
folle: “Non si premia l’eccelso. / Si vuole la mediocrità / e si
distruggono storiche architravi”.
Non mancano nella raccolta altre tematiche: “Bataclan – Bataclan,
/ la musica
è tornata: / non so chi è il nemico / in questo mondo spezzato” (mine vaganti);
“Mentre le case saltano, / un fiume umano - disorientato - / salpa verso mete
indecise. / Le donne di Aleppo, anche oggi, / partoriscono altri morti” (verso
mete indecise).
Talvolta l’ironia fa capolino (ignoranza provinciale) ma a prevalere è il
senso di amarezza come attesta perdenze, lirica che richiama alla mente
la canzone Quattro amici al bar di Gino Paoli con un finale
diverso: “La solitudine non sei tu a cercarla, / è il tempo che te la offre,
/
naturalmente.”
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Recensione |
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