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Nuovi aggiornamenti ermetici
Angela Ambrosini
la Scheda
del libro

Rodolfo Tommasi
Insegnante di
spagnolo e da questa lingua traduttrice (le si deve la versione italiana del Don
Juan di Gonzalo Torrente Ballester per le edd. Jaca Book) oltre che saggista nel
medesimo ambito (importante lo studio su Fama e marginalità di Francisco
Villaespesa: studio sull'ultimo modernista, '83, Guerra), Angela Ambrosini è
certamente una figura di primo piano del nostro panorama letterario, poetessa e
narratrice di vivissima e luminosa vena, scrittrice compieta e di autentica originalità, sostenuta da una cultura vissuta in termini di irrinunciabile
territorio esplorativo e propositivo.
Seguita e molto
apprezzata dalla critica (profili di analisi esegetica compaiono in numerosi
volumi altamente qualificati), la Ambrosini è inoltre presente, con i suoi
testi, in prestigiose antologie, anche in traduzione ("Poeti italiani nel
mondo", '09; "Antologia di New York", '09) e sue poesie in spagnolo arricchiscono
le miscellanee del 'Centro de estudios poeticos' di Madrid; è quindi liscio e
scontato che anche le giurie di accreditati premi letterari abbiano rivolto
l'obiettivo su questa illustre autrice riconoscendole pubblicamente gli
indiscussi meriti.
Ma al di là di un
peraltro ovvio successo in ambiti ufficiali, sono naturalmente le pagine stesse
che testimoniano di una fonda e intensa poetica. La ricerca che permea questa
scrittura e che si trasforma, al risultato enunciativo, in una diffusa e
diffusiva pulsione di densità elevata e complessa – talvolta febbrilmente lirica
– colloca l'autrice nella ristretta pleiade di chi conosce e sa bene plasmare,
fuori da ogni dubbio, gli impalpabili e tuttavia implacabilmente penetranti
poteri della parola, i suoi nitori come le sue aureole significanti, i suoi
potenziali semantici come le ellissi in cui vanno a formarsi gli spazi alogici
della più acuminate forza comunicativa. La Ambrosini appartiene, dunque, per
diritto (e, cosa abbastanza straordinaria, nel solco del codice poetico quanto
sulla misura e sul cromatismo fraseologico prosastico), a quella esigua schiera
di scrittori che hanno
davvero saputo evolvere ulteriormente – e ancora dilatare e modellare – la
valenza ermetica del linguaggio, con impeto saldo, colto e consapevole, nei
termini di una premente e imprescindibile necessità espressiva.
(r.t.)
Ancora so essere quiete
Chiuso fra cose
mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perche bramo Dio?
Giuseppe Ungaretti
Ancora so essere quiete
il turbinio rappreso delle ore
in questo cielo
d'agosto dilatato
su crepitio di stelle.
Dimmi che non più
memoria avremo
di mutamenti e quotidiane giostre
nel fremere caparbio della lena
che vivi ci tiene
come api attorno all'arnia,
dimmi che non più relitti l'infanzia
avrà nell'infuriare
dei ricordi.
Noi siamo qui,
affacciati all'imbrunire
e inasprisce battito su battito la ruota
dei giorni che
inverno prepara in danze
di gelo a stillarci il cuore:
ben sappiamo dallo
sguardo dei vecchi
se luce chiedono a intridere ancora
di capriole il vento.
Dimmi che peso non
avrà per noi
la troppa vita che in liete o meste
schiere ora ci travolge,
dimmi che in
quest'errare d'impronte
un sentiero sommerso troveremo
a dipanarci bava
d'infinito
e traboccherà dal
corrugato fardello
del tempo la tua promessa,
Signore.
Lo sguardo
Comme il est
profond, ce mystère de l'Invisible!
Nous ne le pouvons sonder avec nos sens misérables,
avec nos yeux qui ne savent apercevoir
ni le trop petit, ni le trop grand, ni le trop près, ni le trop loin...
G. de Maupassant,
Le Horla
Non che io
rammenti, ma mi è dato sapere per qualche incomprensibile ragione che la
presente circostanza (da me sommariamente annotata tanto tempo fa, subito dopo
il fatto) accadde durante un accidentale allontanamento dal mio io, forse
indotto dal sonno e comunque cosi inesplicabile da indurmi persino a credere che
si trattasse, piuttosto, della reminiscenza sopita della mente di un altro
essere umano.
Era un'ombra.
Disincarnato e fluttuante, vigile occhio senza pupilla, il mio corpo era
un'ombra. No, non è esatto. Io ero un'ombra o, piuttosto, ciò che di me restava
nel distacco impalpabile da quello che forse era il mio corpo e che sentivo
ancora lì, vivo e palpitante da qualche parte, ma invisibile al mio pur vigile
occhio senza pupilla.
Quella specie di
tenebra di cui era innervata ogni molecola del mio nuovo essere si è stinta al
chiarore del mattino, ancora acerbo sotto il respiro della nebbia che sentivo
circolare dentro di me, sopra di me,"invece" di me, come se io fossi parte della
stessa nebbia. percorrevo le note colline e mi addentravo rapidamente nel folto
sconosciuto dei boschi, di quei boschi che prima avevo sempre visto da lontano,
macchie scure di confine tra la valle e il cielo. Ero felice, ma non sapevo di
esserlo, perché non conoscevo né dolore né ricordi,
esattamente come queste colline che da sempre hanno avvolto il mio sguardo.
Potevo vedere ogni singolo albero e ogni singola foglia di cui era composto e la
linfa che vi scorreva dentro, ma tutto ciò in simultanea con il folto, ora
conosciuto, dei boschi e con il colore iridato del cielo. Potevo vedere i
ciottoli del fiume e il terriccio degli argini impregnati di ogni specie di
insetti operosi. Potevo vedere il pescatore attento alla lenza, come pure il
filo stesso della lenza e sentire i gorghi d'acqua e i bigattini muoversi sotto
le fibre di tessuto del sacchetto rammendato e posato su centinaia di fili
d'erba madida di puntini di rugiada. Vedevo le macchine passare sulla strada che
costeggia il fiume e gli automobilisti conversare con chi avevano a fianco e
indovinavo i loro pensieri e le loro paure. Potevo vedere l'aria frizzante di
questa mattina trascolorare nelle tinte dell'iride ed io ero sopra ogni cosa che
vedevo e al tempo stesso dentro di essa, come una macchina da presa munita di
microscopio e di grandangolo e di zoom in simultanea focalizzazione zero. Non
so se riuscite a capirmi, perché non so se riesco a spiegarmi adesso, mentre
scrivo, nei termini esatti in cui, poco fa, ho visto queste cose.
Poi, una lunga
curva piegare verso destra e una galleria buia è tutto quello che ricordo, una
galleria come quelle che imboccano i treni, con l'apertura coronata di cespugli
selvatici e di spine imbiancate di polvere e annerite di fuliggine, con le
punte dei rami spezzate per l'impatto violento con i vagoni. L'ho infilata a velocità vertiginosa, ma era un movimento inverso, come se la galleria entrasse
dentro di me.
Si è spento allora il vigile occhio senza pupilla e, ricadendo d'un colpo nel mio corpo che, vivo e
palpitante era qui ad attendermi, ho riaperto gli occhi, i miei occhi di sempre,
miopi e stanchi, ho ritrovato i miei ricordi, ho saputo di non essere felice. Mi
alzo e mi guardo allo specchio. Sono sempre io, protagonista di un'esperienza
che ho cercato di narrare in queste poche righe che voi state leggendo adesso.
Sempre io: Federico Fortis.
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