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Amare serve
I
libri di Lucia Gaddo Zanovello vanno maneggiati con cura: rammentano piccoli
portagioie d’argento cesellati a mano. L’autrice, membro del gruppo Formica
Nera, da più di trent’anni si occupa di poesia. In Amare serve sono
riunite sue liriche scritte tra il 2002 e il 2006. Attraverso l’argomento
prescelto, insidioso per i tanti luoghi comuni connessi, sin dalla polisemia del
titolo viene rivendicata un’autenticità di visione priva di compromessi.
Lettrice attenta a ogni sfumatura di sogno e realtà, instancabile indagatrice
dello scenario naturale, vivace interlocutrice con gli animali non meno che con
gli umani, ella cattura l’impercettibile e il ricorrente, l’evidente e l’ignoto
con pari intensità.
«Chi ama nota ciò che sfugge all’indifferenza, ha cura dell’altro, disponendosi
al suo servizio; sorveglia la trama dei fili che lo legano a sé, fino a formare
quel tessuto prezioso che permette di sostenere la straordinaria impresa di
vivere». Amare è fatica costante, non esistono vie di fuga. L’intero creato è
unificato dal medesimo respiro, non esistono gerarchie tra le più diverse
manifestazioni di vita perché, come Lucia ha scritto in Memodía, «Sarei
stelo, che in ombra calpesti» (Marsilio 2003).
Nel tempo i segmenti dei suoi versi si sono espansi in una gemmazione in intarsi
di pareti di luce e tessiture floreali. Nella parola il grido non viene
soffocato, eppure mai vacilla la fede tanto duramente messa alla prova dalle
ferite che ancora pulsano e sanguinano. In ombra c’è bisogno di sole, al sole
c’è bisogno d’ombra, come l’autrice osserva in altre sue opere, ma le alternanze
di chiari e scuri, pieni e vuoti, lacune ed eccessi non impediscono di giungere
a Illuminillime (Cleup 2011).
Il grigiore
imperla molte pagine di Amare serve; l’autrice di rado rinuncia a
rispecchiare nell’aspetto descrittivo del dato naturalistico, già appagante di
per sé, implicazioni relative al contraddittorio comportamento umano. La misura
e il nitore classici debordano in graffi d’aspra modernità o in brucente (suo
neologismo arcaicizzante) chiarore, in seta che s’incendia di immacolata grazia,
in una cura estenuante del particolare, riplasmato, riposizionato nel tempo, in
una levitazione della parola che innalza la poesia, ancora immersa nei fragori
della vita, alle massime vette perennemente innevate. La spina del ricordo
riluce in scaglie di bellezza che intaccano la serenità. Alcune poesie sono
sussurro o alito di vento che muore, ma lungo il percorso squame d’argento e
riflessi di madreperla si offrono inaspettati. I giochi di parole, unitamente a
un uso dosato della rima, nascondono l’artificio in una musicalità che scorre
fluida, acqua limpida che trafigge di malinconia nel velo grigio dei giorni.
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Recensione |
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