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A quasi un
decennio di distanza dalla sua
prima e finora unica raccolta, la veneziana
– ma padovana d'adozione – Raffaella Bettiol
ci dà un libro di versi importante e coeso, consuntivo d'un lungo lavoro
sulla parola e sui temi capitali
dell'esistenza. La prima parte, la cui misurata compostezza
non vela una compita intensità emozionale,
è dedicata ai propri genitori colti negli
anni della loro giovinezza, dal primo
incontro alla maturità umana e coniugale: segno
di una ricapitolazione, per l'autrice, che parta dalle fondamenta dì
tutta la propria biografia. Sono versi meditati e pensosi, che inseguono
l'innocenza ma non possono fingerla, consci di quello che è stato
poi e densi d'un senso inquieto di presagio.
Tutto è narrato per cenni rapidissimi ma di grande incisività: la guerra,
la madre in preghiera "come un'icona" in attesa d'uno dei numerosi figli, infine
dopo molti anni la venuta al mondo dell'autrice "figlia nata forse per caso" da
una genitrice non più giovane. Su tutto prevale un senso di ineluttabilità
e non potrebbe essere altrimenti, poiché il tempo ha una sola
direzione: "Sono trascorse le vicende | delle persone | che abbiamo
amato".
La parola-tema sottesa e ricorrente
nell'intera raccolta è sicuramente "altrove": un altrove nel tempo e
nello spazio, come nel bel poemetto intitolato
Notturno
e dedicato
ad un’amica scomparsa ("Forse ti sei soltanto addormentata..."),
immaginando di compiere con lei un viaggio ideale attraverso
i luoghi più amati o solo vagheggiati. Un'occasione per interrogare, con
lucidità e senza disperazione, il proprio
smarrimento: "parlami ancora | non sappiamo nulla", "ora cerchi soltanto
la tua casa io non so la mia", "aiutami a
cercare un varco antico", fino all'ammissione di una inquietudine sodale
e compagna, "ti assomigliavo forse | so il dolore". La morte è "estremo
esilio", "segno finale", "dilatato destino", neppure la fede offre risposte e
nel cimitero si può solo cercare "un indizio, il soffio dì un'anima", aspirando
per sé ad "un luogo segreto | dove trovare il giusto
profilo delle cose". Non casualmente, ricorre
in più luoghi del libro l'appellativo ad un "viandante mio", sorta di
Virgilio invocato a guida lungo le strade non della morte, bensì della vita.
Ancora un lutto per il
poemetto seguente, in memoria dell'amico e poeta veneziano Mario Stefani la
cui carne è stata "doloroso rifugio" per l'anima, fino alla sua resa "al folle
giocoliere" che gli ha rubato “Lo sguardo franto contro il poco | del nulla
che chiedevi". Ne
è
rimasta orfana e attonita
anche la città lagunare: "com'è ora dolente e disperata | la malinconia di
questi vicoli | d'ombra e salsedine".
La lingua di Raffaella Bettiol è
nervosa e fitta di accelerazioni, asciutta e spesso sospesa tra il dire e il
non dire, tra il dicibile e l'indicibile: i versi sono scabri,
prosciugati e talvolta persino duri nella loro spoglia e sentenziosa
icasticità. L'autrice avverte la responsabilità di chi usa le
parole, soffrendo per la loro inadeguatezza
in quanto "non so dare voce alla
natura | al salmo del mistero | al male che sento dolore". Ogni risposta
è improbabile, "tutto vive | in inquietudine
senza fine, | e il divino non so se sia resa | o essenza
dell'umano", ma la priorità sarebbe decifrare il senso dell'esistenza,
impresa titanica poiché "se tutto è nelle pieghe del tempo | la memoria è solo
un simulacro, | la verità svanisce altrove". Transitorietà ed eternità
sono in continua lotta, non nelle astratte filosofie ma nel quotidiano
più concreto: anche un passero morente può diventarne il simbolo, come
accade in un testo tra i più emblematici.
Un libro
così alto i chiude su un’immagine apparentemente minima, quella di una
vecchia gonna smessa, "dimentica di
un'età diversa | che ogni ora sommessamente | goccia". Un modo indiretto, distaccato
e non sentimentale, per chiudere il
cerchio tornando al tema iniziale: il Tempo che tutto sorpassa e
travolge, impedendo a chiunque di tenerne il passo.
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Recensione |
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