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Sembrava davvero difficile, per la padovana Raffaella Bettiol, ripetere – e a così breve distanza di tempo – l'esisto eccezionale di un libro come Ipotesi d'amore, autentico gioiello contenente non pochi capolavori e convincente in tutte le sue parti. Invece, ad appena due anni dal libro pubblicato con Marsilio, ecco che nelle eleganti edizioni PeQuod appare una nuova raccolta, con l'avallo della prefazione di una personalità conosciuta e autorevole come quella di Umberto Piersanti.

Ed è un libro che non sfigura affatto a confronto del precedente, anzi in qualche modo ne rappresenta il completamento. Lo stile è sempre quello che rende i testi dell'autrice così accattivanti, una partitura dall'andamento narrativo capace però di accendersi in immagini ed emozioni liriche colte sempre dalla realtà e dalla personale esperienza, ma dense di significati e rivelatrici rispetto ad un orizzonte non soltanto individuale. La novità maggiore si trova nel modo in cui Raffaella Bettiol affronta il tema dell'amore, calato e colto nella sua quotidianità (bellissimo, a nostro vedere, anche il titolo della silloge), prosciugato dalle sue sfaccettature oniriche e idealizzate, ma non per questo svilito, anzi potenziato nelle sue opportunità realistiche. Si tratta insomma dell'amore coniugale, visto senza alcun sarcasmo o facile ironia, tattiche che spesso puntano ad alleggerire le situazioni ma che in genere decretano, appunto, la fine di ogni complicità amorosa. Che invece qui, sia pur dopo tanti anni di quotidianità condivisa, perdura ancora, ed è davvero una boccata di ossigeno di fronte ai molti legami che continuamente si sfaldano. Sarà forse, davvero, per la sprovvedutezza, ossia per la serena accettazione della necessaria imperfezione di sé, del partner, delle reciproche abitudini, del proprio e di ogni possibile rapporto? Forse il segreto è proprio qui, in un'accettazione non rassegnata ma propositiva.

Una della prime poesie contiene l'immagine di una gonna “accesa di luci” e “in un chiarore di giovinezza”: il libro precedente sull'immagine di una gonna si chiudeva, anche lì a rappresentare gli anni passati ma non passati invano, né dannosi. I versi di Raffaella Bettiol sono prodighi di queste epifanie, apparizioni di oggetti che – lungi dall'abbassare il tono – con il loro “segreto linguaggio” rinsaldano il discorso e il sentimento che li contiene. Il tutto reso con una colloquialità narrativa dagli esiti splendidi, penetrante e persuasiva in modo sottile (ma non subdolo), cosicché il lettore si trova a condividere quasi dal di dentro quel che l'autrice esprime. I due “complici incauti di una storia” scelgono consapevolmente di volersi ancora bene: “Non lasceremmo nulla d'intentato” perché “l'amore invecchia, credimi, | più in un calcolo prevedibile | di gesti, che di anni”. Il libro, anche se già basterebbe, non è tutto qui, ci sono anche l'assai bella sezione dedicata a luoghi e tempi di viaggio (con i magnifici poemetti in memoria di Mario Stefani, rivisto nella sua Venezia, e sulle norvegesi “ragazze dei troll”) e quella, forse più consueta ma ugualmente ricca di sfumature, sulle maschere della Commedia dell'Arte. Tra gli ultimi testi, merita citare quello in memoria del lagunare Matteo Vanzan, fermo e privo di retorica. Il libro si chiude sull'immagine dell'autrice che, a due o tre anni, perde di vista i fratelli nel corso di un gioco: “Nessuno ritorna, | io, piccolo fantasma, | il lenzuolo a terra, | piango a lungo | desolato”. Un finale enigmatico, che forse anticipa una nuova tappa di un discorso poetico tutto da ascoltare.

Recensione
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