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Il cantare delle mie castella

Parrebbe un'operetta minore, questa, nell'ambito della fitta bibliografia del poeta emiliano, densa di titoli articolati e complessi che, è opinione non soltanto nostra, risultano di prima importanza nella letteratura italiana dell'ultimo trentennio. Ma sarebbe una svista sminuire questo godibilissimo, sapiente gioiellino, facendosi ingannare dalla forma leggera dei versi ottonari, dal gioco semplice delle rime, dall'evidente ironia che è sottesa alla costruzione: "Come d'aquila e lo sguardo / di Ezzelino da Romano / che governa genti e bestie / dalla Rocca di Bassano / ... / tanto che tronca di scure / diecimila padovani / altri mille per la forca / come guelfi partigiani".

Perche dietro, come ben evidenzia Sandro Gros-Pietro nella sua prefazione, sta la medesima visione su cui si articola molta della produzione maggiore di Onano, ovvero ('idea della Storia come com­media umana nella quale tragedia e facezia sono indissolubilmente intrecciate. Certo Onano si sarà divertito a scriverlo, come il lettore si divertirà a leggerlo, I'uno e l'altro assecondando lo "stupore divertito per I'insulsaggine umana": una "epica popolare" all'apparenza minore, da cantastorie, dietro la quale prende però corpo la "memoria millenaria" di quando i signori, proprio come oggi, si prendevano gioco del popolo, facendone il proprio servo o il proprio trastullo

 La storia è una continua reiterazione, sotto diverse spoglie (quelle dei costumi, nel duplice senso degli usi e dei panni), delle medesime vicende, in perpetue variazioni e varianti. Le "castella" delle Moiane e di Moriano, Bassano, Oramala, Canossa sono i cinque scenari per vicende, anche notissime (Matilde di Canossa, Ezzelino e Papa Innocenzo, il Barbarossa e Obizzo Malaspina...), del Basso Medioevo, nei quali i protagonisti — per lo più spettri di un teatro d'ombre — sono colti o immaginati al declino della loro vicenda terrena, quando il potere di cui hanno usato e abusato è ormai un lontano ricordo.

Una "attualità metaforica" che va ben al di la di tempi e di luoghi, monito al facto che tutto rapidamente passa e chiunque, fosse anche signore di tutto I'orbe, farà presto o tardi i conti innanzi­tutto con se stesso. Il più bello dei cinque poemetti è probabilmente ('ultimo, che ritrae una Matilde anziana e penitente, ormai lontana la giovinezza" ove ad arte manovrava / la ragione e la bellezza": la donna invoca la Madonna, la quale si manifesta come una bianca colomba che "lieve posa al davanzale / per un attimo guardando / la Contessa, poi risale // alla sfera dove ha stanza / la dolcissima speranza. / Nuda va l'anima in cielo, / Maria la copre con I'azzurro velo".

Recensione
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