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Pietre
La
Basilicata, o Lucania, è terra difficile e dalle vicende aspre, più volte
compianta in letteratura: si pensi, a Carlo Levi e Rocco Scotellaro. In questa
terra è nato e vive anche Giovanni Di Lena, che in questa silloge non concede
praticamente nulla al sentimento lirico, prediligendo un dettato asciutto e
concreto per rimarcare la criticità del vivere odierno non soltanto nella sua
regione, ma nel contesto della “condizione umana” generale.
Si definisce uomo
“libero da ogni schema”, certamente è un poeta civile e “politico” che non
sublima né abbellisce, ma denuncia affermando la libertà di pensiero. Invoca
giustizia in un mondo “spezzato” dalle ideologie e dalle guerre, in cui è
persino difficile distinguere chi sia il vero nemico. Ricorda il padre, uomo
“perbene” che “rispettava la legge” ma con “gli occhi tristi” di chi ha dovuto
subire ripetute ingiustizie.
Rammenta la miseria della propria infanzia, la
“rinuncia” come stile di vita, e si preoccupa per l’attuale crisi economica,
perché negli sguardi della gente rivede “il bambino che io ero”. Teme il
“silenzio di morte” coperto dal rumore della festa, le false promesse, le verità
bugiarde, gli asserviti e gli sciacalli e i mercenari e infine tutti coloro,
compreso se stesso, disposti ad essere “rabboniti con un pezzo di pane amaro”.
Parla di “idrocarburi in brodo”, di un “cane anomalo” (chiaro riferimento al
simbolo di una multinazionale) che rende putrida l’aria, di fabbriche
dall’inumano “tic tac frenetico”; cita l’Ilva, una “nuova Babele” dove persino
la morte di un lavoratore (peraltro precario) “è contemplata nei voucher”.
L’anima è “ghettizzata” dalla politica, si vive con addosso un senso di resa, di
paura, di rassegnazione, di precarietà che “plasma i principi” e “ sgretola le
forze”, in una sorte di “morte civile” dove le conquiste storiche dei lavoratori
sono rimesse in discussione, tramutati in “deportati della globalizzazione” e
“pedine delle multinazionali”. “La differenza è sempre nel sangue: / c’è quello
versato per gli altri / e c’è quello succhiato dai vampiri”, mentre “le trivelle
/ squarteranno la terra, / il mare verrà imbrattato / e le neoplasie
trionferanno”.
Quello di Di Lena è un discorso sul Potere che perpetua se
stesso, prosperando nel qualunquismo, giovandosi di “periodo sconnesso” che
favorisce inerzia e passività. Sa essere sarcastico, come nella poesia
“Ignoranza provinciale”, oppure compassionevole come nel ricordo di Marconia,
donna dal destino tragico. Sempre e comunque, non usa giri di parole: la
vita è “una giravolta di etichette / scambiate al mercato del pesce”, mentre
“logori sensali e statici rampolli” e “sagome deformi” che rispuntano “dalle
retrovie corrotte” gestiscono i “giochi elettorali”, per cui “nel solito
letamaio / culmina la quadratura”. Quale riscatto, se “l’ignoranza dilaga / e
la società si frantuma?”. La si direbbe una situazione senza speranza, un vicolo
cieco, e forse lo è. Ma dire è sempre meglio che tacere e Giovanni Di Lena,
certamente, non tace.
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Recensione |
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