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Romanzo per la mano sinistra
“Il Ponte
rivista di politica economia e cultura
fondata da Piero Calamandrei”
Anno LXXIII, n.3, marzo 2017
“Una gelida nebbia adergeva la città di Monaco, essudava una matrigna
pioviggine sul timpano neoclassico della Bayerische Staatsoper e colmava
l’architettonico calice dell’intera Max-Joseph Platz di un icore impalpabile ed
ostile, impregnava di sé i viali ed i giardini, da Thalkirchen a Schwabing; dopo
aver esalato il proprio fiato spettrale sotto al triplice arco del Siegestor, si
spandeva verso oriente, fino ed oltre al quartiere di Haidhausen dove,
discendendo tra le tetre facciate degli edifici di Rosenheimerstraße di cui, ai
margini dell’incombente oscurità, la pubblica illuminazione ritagliava i profili
gelosi di interiori austerità, giungeva, infine, a ristagnare dinanzi alla mole
massiccia e sgraziata della Bürgerbräukeller”. In questo incipit di uno dei
suoi 102 capitoli sta il pedigree letterario del Romanzo per mano sinistra
di Giancarlo Micheli. Robert Musil e Karl Kraus: il tributo alla letteratura
mitteleuropea del primo Novecento è evidente. Perché dunque scrivere questo
romanzo? Un romanzo tutt’altro che post-moderno. Con le sue 635 pagine, dunque,
è un libro solido e pesante, non liquido e debole. È un romanzo modernista. Ma
ne contiene in seno il suo superamento. Questa è la sua, ritengo, più seria
legittimazione. Ed il superamento sta nella stessa intuizione di Kraus. Se
Gli ultimi giorni dell’Umanità sono irrappresentabili come pièce teatrale,
il romanzo di Micheli è inenarrabile. Infatti, con un meccanismo esattamente
opposto al “flusso di coscienza”, per tutta la vicenda di Stefan, leggiamo col
fiato corto il magmatico fluire delle storie individuali dentro la corrente
della Storia collettiva. In una parola della vita stessa, che nessun meccanismo
narrativo sarà mai in grado di imbrigliare e contenere.
“Fu proprio in quel tempo in cui
gli si chiedeva di attendere che nell’animo dei tiranni prendessero a
germogliare i semi della misericordia e che monete nuove di zecca cominciassero
a buttar ruggine nei depositi di non meno dispotici amministratori delle fortune
sue e di quanti gli erano più cari, fu proprio in quei primi giorni dell’inverno
del 1938 che Stefan iniziò a scrivere una serie di lettere, le quali, dapprima,
ritenne di destinare al figlio nascituro, affinché potesse leggerle quando in
lui la sete di sapere si sarebbe fatta viva e dal racconto delle traversie del
padre e della madre avrebbe potuto ricavare un relativo appagamento, ma, ben
presto, gli rivelarono pure l’esistenza di luoghi e territori del suo proprio
mondo interiore, i quali,
fino ad allora, aveva negletti e misconosciuti”.
La trama del romanzo segue le sequenze delle lettere che Stefan Bauer indirizza
al figlio Bruno. Lo scenario è quello del secondo conflitto mondiale e, in
particolare, la narrazione è incentrata sull’esperienza della persecuzione
razziale. Stefan, infatti, è un medico ebreo di nazionalità morava. Anche la sua
compagna, Adele Ascarelli, napoletana, storica dell’arte, è ebrea. L’andamento
segue l’itinerario dell’ “ebreo errante” in fuga dalle tragedie del Novecento.
Sullo sfondo incombe l’idolo pagano del leviatano nazista, ma progressivamente
cominciano ad allungarsi le ombre di un altro mostro, preannunciatosi come
liberatore. Ecco che le vicende di Stefan, libertario e antifascista, si
intrecciano, oltre la vittoria sul Nazismo, con i prodromi del dramma del
fallimento del comunismo, del “dio che ha fallito”. Sarà suo figlio Bruno a
prenderne il testimone nell’ultimo scorcio del secolo, attraversando l’ultimo
fuoco rivoluzionario degli anni ’70.
C’era proprio bisogno di un nuovo romanzo del e sul Novecento? Il dubbio
s’impone ed è difficile derogarvi. Eppure la questione è oziosa. Come lo sarebbe
intorno a qualsiasi opera d’arte. Come chiedersi, ad esempio, se fosse
necessario il Bolero di Ravel, o, e siamo in tema, Il
Concerto
per pianoforte per la mano sinistra in Re Maggiore. Questo brano venne
composto tra il
1929 e il
1930 su
commissione del pianista austriaco
Paul Wittgenstein,
fratello di
Ludwig,
privato del braccio destro in battaglia, nel corso della
Prima guerra mondiale.
In realtà, a parte questa occasione ufficiale, il rimando alla mano sinistra qui
introduce il fatto che Maurice Ravel fosse affetto dai primi cenni di una
demenza della parte sinistra del cervello. In questa musica prevalgono infatti
i timbri. E se la melodia, assente, è liquida, il timbro orchestrale è solido.
Inoltre la lesione dell’emisfero sinistro induce alla reiterazione e alla
coazione, come appunto ripetitivo e incalzante è il ritmo del Bolero. Comprendo,
dunque, e non so quanto tutto questo sia casuale o non necessario, la
motivazione del titolo di questo romanzo, altrimenti, suggestivo, ma oscuro. Un
romanzo per la mano sinistra è un’opera sulla solidità perduta, caratterizzata
dal timbro senza respiro del Novecento, un romanzo su tre vite sottratte dalla
fluidità dello scorrere normale del tempo quotidiano e forzate dentro i rigidi
canali della Storia contemporanea.
Questi argini vengono però rotti dal timbro orchestrale della vita vissuta, come
in un bolero, appunto. E questo magma esistenziale inonda la Storia, introdotto
dai titoli dei capitoli, ciascuno dei quali è, o sembra, un motto popolare.
Val più un’oncia di sorte, che cento libbre di sapere. Ciascuno di questi
temi introduttivi ha il suono grottesco di una trombetta che preannuncia
l’uragano.
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Recensione |
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