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Abbandonare TroiaAbbandonare Troia di Lucio Zinna è da poco edito nella collana ‘poesia 80’ della Forum/Quinta Generazione diretta da Giampaolo Piccari, ma, come sempre accade a ogni opera dello scrittore siciliano, ovunque stanno uscendo recensioni. Se ne parla molto e giustamente, perché il libro si connota per vigore poetico, per liricità fuori dagli schemi tradizionali, per ironia in grado di scalfire e riaffiorare quando l’iter poetico sommuove l’animo e potrebbe ingenerare oppressione. Insomma, diciamo che il poeta ha usato sapientemente tutti gli ingredienti a disposizione della sua penna capace per un prodotto, ‘la poesia’, ancora fruibile da una società, come la nostra, presa da mille occupazioni pratiche.
L’opera si estrinseca come viaggio di ritorno del poeta alla sua isola (ritorno fisico, ma anche e soprattutto di mente e cuore); alla patria, tanto amata e vituperata, ma non diversa, in fondo, da qualsiasi altra terra d’Europa o del mondo. Collocabile geograficamente (e l’ironia interviene magistralmente aggressiva) a Nord o a Sud in relazione ad altre parti del continente. Il poeta si avvale di un metro dinamico con cui si snodano vicende e sentimenti, visioni e umori con alterità e identità insieme, quasi in un magico caleidoscopio. Il Sud viene filtrato alla lente dell’intelligenza e ne scaturisce una terra vivibile, con tutto il suo bene, con tutto il suo male. Zinna fa largo uso di richiami classici (Dante, Lorenzo il Magnifico, Leopardi...) e ha buona mescidazione linguistica (francese, inglese...), sempre con misura in un contesto lirico-ironico avvincente. Ci sembra doveroso sottolineare l’originalità dell’opera, la sua non discendenza da questo o quel poeta. Giustamente Raffaele Pellecchia dice in prefazione: «... tornando alla raccolta di Lucio Zinna, mi pare fuori discussione che in essa campeggi una cifra stilistica sua e soltanto sua...» È la riprova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto andiamo asserendo. Parla ancora Pellecchia (e concordiamo) di «pluralismo come dato di fondo che investe tanto la sostanza lessicale quanto la ristrutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso poetico che, tuttavia, conserva come suo segno distintivo, un abito di preziosa e ironica curiosità...». Pensiamo, a questo punto, di potere avvicinare il testo certi del giusto inserimento nel mondo poetico dell’autore. «Laguna veneta» (pag. 30): «Mai altro luogo in cui s’azzeri come su questa | fluida putrescenza ogni contrasto e integra | ne permanga l’essenza gioioso struggimento | amara festa oh vita che negandosi s’afferma | ricamata solitudine gaia malinconia (un fremito) | d’archi trascorre su quest’erba a pelo d’acqua) tremuli pinnacoli morte di broccato» (1983) «Memoria di scirocco» (pag. 31) «La siciliana arsura dell’estate parafricana | coloniale si stempera con douceur al primo | autunno (qui – come tutto – tardivo) in questo | novembre già così sufficientemente malinconioso. | Bevo le prime gocce celesti e m’assaporo | l’odore bagnato della terra il lucido dell’asfalto | la rarità del grigio in cui s’inglobano Piazza | Politeama i pizzardoni ormai in nero con tanto | di casco a pera...». Difficile che pochi versi riescano a dare l’idea completa del libro e della sua validità e per questo torniamo al discorso critico riportando quanto dice Melo Freni: «... È la storia di ognuno di noi, ignaro ulisse della sua avventura, sempre diviso dall’incertezza di restare e di partire (...) C’è nei versi di Lucio Zinna lo scontro di due civiltà (perché soltanto europea e araba?) che cercano fra loro difficili approcci, fra legni e pareti, inconsapevoli. Lo spazio interiore (di queste pagine) è anche nostro, è della nostra terra, simbolo ormai, forse soltanto simbolo, di quella pace irrequieta e prepotente che viviamo alle soglie del terzo millennio». Ci piace concludere questa breve, incompleta, forse affrettata (ma lo spazio è tiranno) recensione di Abbandonare Troia di Lucio Zinna con l’invito a chi ci segue alla lettura del libro. |
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