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Senza inventario

Prima raccolta poetica, questa, della Panussis; una raccolta cui ha dato un significativo titolo («Senza inventario») e per il modo con cui pizzica disordinatamente (ma non troppo, poi, a ben guardare) le corde che tengono insieme il vivere dell’uomo e per lasciar la possibilità, anzi la certezza, che nuove raccolte verranno, che il suo «ordire» poesia è per lei una necessità non più il «divertissement», o la poesia intesa come sfogo momentaneo del proprio stato d’animo, e quindi, come tale, destinata a durare quanto lo stato d’animo stesso. Le poesie raccolte, non sono molte: superano di poco la dozzina, ma riescono a darci il mondo poetico dell’autrice, sotteso tra i simboli della memoria, della violenza e della speranza.

La memoria è rivissuta/ripescata come momento nostalgico, con una frammentarietà che vuole appositamente pennelare il vissuto, senza essere costretta ─ probabilmente perché ritenuto un «alla ricerca del tempo perduto» che non ha per lei ragion d’essere ─ a un «inventario» del dare e dell’avere, come siamo soliti fare. É in noi, infatti, quasi amorevole, abituale modo l’andare nella memoria a cercare radici, punti fermi, appigli a cui agganciarci per non farci troppo sballottare dai pericolosi, disarmanti dondolii del presente. Per la Panussis è solo motivo di far poesia con accesi toni lirici, non trascurando l’accusa precisa a quanto del passato può giocare in lei come momento di rottura: «Sono batterie scassate / queste onde / che rovesciano schiuma / in fiori bianchi / raddoppiando meriggi intatti / fra conchiglie di vetro». I versi brevi, tersi in una loro perizia poetica, cullano l’ascoltatore facendogli esplodere immagini ora pacate ora spumeggianti. Ciò che riaffiora in lei, comunque, è sempre misurato, tanto che può con tutta la sua dolcezza esprimere «…ho nella gola il sale / di questo seme amaro», dove la disperata solitudine del secondo verso è attenuata dal denso equilibrio del primo.

Da qui, da questo inventario / non inventario di memorie, il presente si staglia in tutta la sua durezza: «Vivere per intero / e non sentirsi a mezzo / fra aneddoti posticci / col cuore in gola / e con la fronte a brani». Il suo desiderio di totalità di vita, che prendeva note appena sfiorate nella memoria, diviene nel presente volontà precisa di recusare tutto ciò che è falso, posticcio: unica possibilità perché la mente non vada a pezzi oppure, ci pare di poter interpretare, si chiuda in assurdi, alienanti monologhi. Non ha falsi pudori, quindi la Panussis, nello sciorinare la propria vita minacciata dalla violenza, dall’assurdità della violenza, non solo della guerra («Lo sterminio di affamati: un cimitero nuovo»), ma anche di quella perpetrata giornalmente (il suo accenno ecologico, per esempio), ma anche e soprattutto quell’essere noi disperatamente cementanti e cementati in un rapporto umano di cui, come forse la memoria, si sono perse le radici.  

La sua salvezza ─ la nostra ─ contro «gli inutili architetti» ─ non è solo nel chiudersi in se stessi (alludiamo a quei versi in cui l’autrice estrinseca il bisogno che non si venga a disturbare il ragno che tesse la sua tela, l’«ordito» “che lega cosa a cosa”), ma nella forza che, nonostante tutto e oltre tutto, c’è la speranza, se pure nascosta, mistificata, attorcigliata. La parabola poetica della presente raccolta ha così la sua ragione di essere; dalle fila accennate del vissuto, alla condanna, presa di coscienza del presente camuffato in una soverchia indifferenza/abbandono, fino alla capacità di saper e voler vivere. Ella si muove «con poca vita in tasca / sparsa tra nodi di ciliegi; / puoi attorcigliarti al nulla, / guardare tra le fronde / e scoprire col vento / anche il respiro».

 

 

Recensione
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