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Il contatto ideale tra anime
avviene sempre attraverso lo scambio di mondi, non sempre l’incontro schiude le
porte di un paradiso, molto spesso incappiamo nell’immagine di un universo
ferito, contratto nella realtà sublime del dolore, che chiede udienza, vuole
essere ascoltato. Il Taccuino nero di Nadia Agustoni avvolge il lettore in un abbraccio di parole, di emozioni stilate nella
preziosa forma dei versi, nitidi, non privi di fresche impennate lessicali.
Gioco ed esperimento sono
costruiti, sillaba dopo sillaba, sul dolore, anche fisico. Molto spesso prevale
tuttavia l’avventura drammatica dello spirito, un “ora et labora” che non si
apre a tutte le speranze attese. E’ fragile, umana parola che commuove
ripiegata su se stessa, nella lotta contro la macchina che fa soffrire dentro la
fabbrica dalla quale è necessario evadere con i sensi della poesia: “…t’impari
un sonetto di silenzi | prima del rumore delle ferramenta | che esplodono quando
ti maciulla il costato l’ingranaggio…”. L’immagine emblematica del costato
sembra evocare richiami cristologici, di passione: la lotta fra il dolore
accusato e il silenzio che è così carico d’ispirazione. C’è da chiedersi come
l’autrice riesca a liberare l’umanità profonda del lavoro, la sua
contraddittoria forza e stanchezza, per restituirci una parte della nostra vita
interiore, solidale con la tensione di tutti i giorni, ma aperta all’altro, alla
fuga verso la bellezza più luminosa. Il colore nero del taccuino è espressione
di una luce diversa, non dimentica della fragilità umana che ci
contraddistingue, nudi nella nostra esistenza di pena, possiamo rivestirci di
poesia per apparire ambivalenti nell’universo della gioia e del dolore
rappresentato dalla fabbrica. Sarebbe facile paragonare Nadia Agustoni ad
autori, come Ferruccio Brugnaro, profondamente impegnati nel sociale e nella
rappresentazione delle conflittualità, sottese al mondo del lavoro, nessuno vuol
negare questi importanti precedenti culturali e politici. Mi limito solo a
suggerire che la visione della fabbrica e della vita, in generale, presentate
hanno una loro nuova complessità, nel bene e nel male.
L’esperienza
lavorativo-esistenziale dunque non è oggetto di una condanna a priori, gli
aspetti più spersonalizzanti testimoniano il trionfo della poesia che riesce a
riscattare ogni limite. La tenerezza di quei gesti quotidiani, riportati nei
testi, è quasi una liturgia del sacrificio, personale e collettivo, un’offerta
al mondo che vibra di protesta, per l’ingiustizia dello sfruttamento, ma non si
esaurisce nella sola dimensione delle, sia pur giuste, rivendicazioni. Il
lavoro è dunque un’esperienza fisica e metafisica, uno spunto per misurarsi con
la propria interiorità, per scavalcare la disciplina di fabbrica, le gerarchie,
infine per conoscere una libertà nuova di pensiero, ondivaga e ludica.
A titolo di esempio,
voglio, in maniera completa, segnalare un testo, prezioso per le valenze
speculative, intitolato “i fatti spogli”: “Ma è difficile tenersi all’abbaglio
|
succedono a noi le cose, i fatti spogli, | a un corpo cui l’ombra si fa callosa
| e c’è il disturbo degli occhi | il loro ammaestrarsi a vedere soltanto |
l’ovvio. Diventiamo soli e
inventiamo | di stare in disparte, di non sapere niente, | perché niente collima con l’orda
dei no | come se un’altra sostanza ci facesse umani | ma è lo stesso dirlo
o lasciar perdere. | L’archeologia industriale
ricostruirà | il gesto intero della vita, | ma non la brama del gesto, non il morso della
carne, il contemplare | lo spazio. (pag. 33)
Sono evidenti, nella poesia
citata, i richiami alla complessa dimensione umana, piena di questioni
irrisolte, slanci di desiderio che tradiamo con le nostre azioni, quei gesti che
hanno bisogno di essere interpretati e amati, su un piano alternativo ai fatti,
spogli, eppure densi di coinvolgente poesia.
L’emergere di una certa
attenzione verso il gioco linguistico si presenta per darne un assaggio, nella
lettura di “in rima”, davvero la semplicità è qui ingannevole, eppure quanto
accattivante! L’autrice esordisce con “ Tutto in rima non è volersi bene
| il mondo è comunque, ma non ci appartiene…” La provocazione è riuscita e
godibile, tuttavia non c’è un linguaggio che scade nel lezioso, piuttosto si
assiste al miracolo di una fanciullesca, avventurosa profondità di pensiero.
L’ultima
sezione, intitolata “Frammenti”, contribuisce ad agganciare il lettore
all’universo poetico di Agustoni, ci sono ampi stralci autobiografici,
riflessioni e descrizioni di un mondo proletario che è ritrovato come Itaca da
parte di Ulisse. E’ una prova d’autore, al confine tra narrazione e poesia,
una ricerca nell’universo inesauribile dell’homo faber, tra periferia, campagna
e città, infine, una sorta di amore trattenuto da pennellate di risentimento per
la pena di vivere. La malinconia, là dove spunta, è comunque sempre illuminata
da una luce di profondo, grato, stupore per il privilegio, unico e solo, di
essere poeta. Nadia Agustoni si mette così in gioco fino in fondo, e noi con
lei, grati per questo ‘brillante’ Taccuino Nero. | |
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Recensione |
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