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Nel frattempo
viviamo
Il quotidiano
s’intrappola nella poesia, le toglie il guscio della deferenza e con negligente
casualità le inocula la pungente ma profonda visione dell’epigramma. Poi, in una
modalità antitetica, la tessitura stilistica si appiana nel canto lirico di
ampio respiro. Questo ci sembra il gesto insito in gran parte della raccolta
Nel frattempo viviamo di Nazario Pardini, e cioè quel carattere “duale”
giustamente menzionato dal Concardi nella prefazione e dallo stesso autore
riconosciuto quale stilema ricorrente nell’intera silloge a livello sia tematico
che linguistico. Le poesie di Pardini seguono un andamento pendolare in bilico
tra facezia epigrammatica (breve vividumque carmen, direbbe Marziale) e
un verseggiare disteso e intimistico, tra un tessuto fonico sovente spinto fino
a creazioni fonosimboliche e un linguaggio classicheggiante e armonioso. I
seguenti esempi testimoniano chiaramente questo ritmo altalenante nel quale la
ricerca di un lessico spesso legato ad aspri valori timbrici non disdegna
toscanismi e capriole ritmiche e allitterative: “La gioia è come un ago in un
pagliaio, / ti dai da fare, sfraschi per trovarla /…/ ma la paglia finisce e c’è
lo stollo, / a questo punto scopri l’imbroglio” (p.74) E ancora: “…o in qualche
buca piena di motriglia, / ti scatta la tristezza e il parapiglia” (p. 75).
Altrove, per contrasto, la componente acustica del linguaggio s’incardina
proprio nella semantica stessa di versi enunciati in una temperie classica:
“Batte l’ora il campanile / e il suono di campane per il piano / si porta dietro
/ spazi di sagrato /../ i tocchi del metallo, l’incensiere, / scontri verbali
per funi campanare / di fanciulli assiepati a litigare” (p. 35).
In tutti i casi,
l’io reale non si dissocia mai dall’io poetico, in una viscerale aderenza a un
concetto di poesia esente da epidermici paludamenti letterari e che fin dal
titolo del libro, Nel frattempo viviamo, lascia intendere l’aleatorietà
di tante circostanze esistenziali, prive di rassicuranti schemi di
causa-effetto. Di qui il caos che serpeggia non solo nelle nostre vite, ma nella
stessa storia che viviamo oggi come in quella che ci ha preceduti ieri, in egual
misura avvolta da un’inquietante indifferenza di montaliana memoria. Un “male di
vivere” inestirpabile ma non insondabile, data la sua irrevocabile evidenza.
“L’ombra del fico / lontana dal mondo, / le guerre / Pol Pot intrappolato / gli
Albanesi che si affogano / in mare come falene / bruciate da una luce virtuale /
alla ricerca di una terra panamericana. /
È
il primo giorno d’estate / il cui raggio esplode nel fiume/ a rifugiare il
colore dell’acqua. / Nel frattempo viviamo.” (p. 20) Vale la pena citare per
intero questa intensa poesia il cui ultimo verso dà il titolo alla raccolta,
proprio a testimonianza dell’incurabile malattia che tutto pervade. In altre
occasioni, in una sorta di “catena di eventi” simile a quella additataci da
Eliot per introdurci nel suo “correlativo oggettivo”, appaiono dati visivi,
quasi fotogrammi di icastica dirompenza proiettati verso una scansione narrativa
presente-futuro sotto le spoglie di quella che sembra un semplice enunciato
descrittivo. Al riguardo, riteniamo opportuno trascrivere per intero un’altra
tra le più belle ed emblematiche liriche di questo libro che, come la
precedente, e come la stragrande maggioranza (tranne rarissime eccezioni)
risulta priva di titolo, quasi a voler assecondare un flusso ininterrotto di
sensazioni e considerazioni. “Saltava contento, gioioso, / non aveva bisogno di
riposo, / era decenne / indenne da ricordi. // Là davanti / nascosto tra il
fogliame / trangugiava insaziabile un serpente / un rospo / tra il gracidare
indifferente / delle rane”. (p. 24) La prima parte (non a caso separata dalla
seconda da un doppio spazio tipografico) è il fotogramma poetico, privo di
soggetto nominale, di un bambino che salta felice, dato descrittivo rinchiuso
nel primo verso, poiché gli altri tre coincidono con un dato dichiarativo: il
poeta, in un incalzante gioco di rime, riflette sull’età del bambino che lo
rende “indenne da ricordi”, laddove il termine “ricordi” sembra inconsciamente
evocare un’infermità. Il deittico spaziale di lontananza “là” ci introduce nella
seconda parte e, con la fotografia inclemente della serpe che trangugia il rospo
in un’indifferenza cosmica, pare assumere immediatamente anche il valore
deittico del futuro in un presumibile scenario allegorico riferito allo stesso
bambino, assimilato, in un’ellissi temporale in avanti, al destino dell’animale
straziato. Ancora una volta il frammento di un aneddoto in apparenza irrilevante
è, per il poeta, nesso di unità di contenuti.
Di particolare
interesse è nella raccolta la tendenza a tematizzare la riflessione sulla poesia
e sul linguaggio in generale, una metapoesia che s’infittisce in una messe di
annotazioni in apparenza casuali che celano, al contrario, il cruccio di Pardini
(non solo rinomato poeta ma anche stimatissimo docente universitario e critico
letterario) riguardo all’essenza della “parola”, pane quotidiano e strumento
irrinunciabile di comunicazione. Spesso l’attenzione dell’autore, qui poeta e
filosofo insieme, si appunta sull’universo che ci circonda, nel rimpianto di
un’unità perduta, recuperabile solo attraverso l’intuizione artistica. “La
geometria che attorno / si distende / e visivo ti rende / ogni reale / è
l’insieme diviso e frammentato / di quello che compatto / era ai primordi. /
L’unica voce / che unisce ogni elemento / è il momento dell’arte, / è il sesto
senso / che l’anima / possiede”. Il traguardo agognato approda a “segmenti,
anche pur brevi tratti / dell’universo intero, / libero ormai da scrimoli”. (pp.
16-17)
Supponiamo che questi
“segmenti”, altrove evocati, siano proprio i vocaboli che a volte “non calzano”
e che pertanto “vanno spaesati, / come gli alati / confusi nell’aria / allo
spirare dei venti” (p. 32), a dimostrazione dell’inadeguatezza insita nel
linguaggio umano, incapace di assumere in sé e di rappresentare la complessità
dell’universo, facendo eco alla celebre definizione di Wittgenstein “I limiti
del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Paradossalmente, secondo
il grande filosofo viennese, “ciò che si esprime nel linguaggio, noi
non possiamo esprimerlo per mezzo del linguaggio” e questa è la paralisi che
attanaglia da sempre poeti e pensatori inducendoli a una sorta di nostalgia,
più o meno inespressa, dei primordi del linguaggio stesso, come anche il nostro
poeta in modo struggente e stringente confessa “Io non so le parole del giorno,
/ ma vorrei tra la luce che varia / sapere i tinniti di lingue lontane, / i
primitivi sintagmi sapere / di vetusti fonemi di foglie” (p. 43). “La parola non
è forse sostanza?” si chiede in una delle poche liriche introdotte da un titolo
(nella fattispecie emblematico, Masturbazioni mentali) per poi pervenire,
in versi dall’incedere vagamente ungarettiano, a una rinuncia totale della
scrittura: “Non ho più voglia / di gridare. / Riposeranno i pensieri. / Il
crepitare dei miei sogni / s’impiglia / nell’aria. / Non è più il tempo / degli
inchiostri e dei pennini” (p. 57).
Ma il rovello, o
piuttosto la burla per cui la realtà fenomenica sia nient’altro che il risultato
di un’invenzione effimera del poeta, di ogni poeta, si affaccia a tratti fra i
versi di questa singolare, argutamente spiazzante raccolta e, così come Pessoa
nella sua celebre Autopsicografia asserisce che “il poeta è un fingitore
/ finge così intensamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che
sente veramente”, parimenti Pardini afferma nella poesia Su “la bugia”
che “La bugia ripetuta / è la voglia incalzante di squarciare/ la cappa
opprimente della verità. /…/ Non esiste poeta / che della bugia / non ne faccia
un’arte /…/ Io sono un bugiardo incallito / fino al punto che quando dico la
verità / mi sembra di dire una bugia” (p. 99). Così la piroetta, la capriola, la
finzione si rivelano essenza della poesia e dello stesso destino: “Nemmeno i
Titani / sono riusciti a sconfiggere / il destino, / il solo verso / è quello di
ingannarlo / con l’immaginazione. // Le chiamano bugie, utopie, fantasie / ma
sono l’anima delle poesie. // Il disastro fatale / quando arriverà / se ne avrà
pure a male”. (p. 53).
Ma la
contrapposizione fra i due poli tematici ed espressivi, di cui dicevamo, è
sempre in agguato e spinge l’autore a una dirompente confessione di
trascendenza: “Non ho più parole da consumare / e mi abbrucia / l’immensità
imprigionata” (p. 105). Stessa connotazione imprimono nel nostro poeta,
appassionato estimatore di Puccini, le note del grande compositore toscano le
cui opere sono “uno dei pochi messaggi” in grado di trasmettergli “attimi di
certezza / sull’esistenza del soprannaturale” (p. 61). Il valore alogico della
musica trabocca nella rivelazione fulminea dell’enigma e del suo codice segreto.
Nuovamente si affaccia nell’intimo del poeta il dubbio sull’inadeguatezza della
parola: “Non è più il tempo / di spendere parole / sui candori / dei fogli
troppo lievi alle intemperie”. (p. 92)
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