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Prefazione a
La verità degli anni
di Franca Donà
i dati del
libro
Angela Ambrosini
Tutto inizia
adesso: nell’hic
et nunc della lirica d’apertura l’itinerario poetico di Franca Donà si
delinea calamitato da una sorta di incantamento nei confronti delle esperienze
quotidiane più marginali, solo presumibilmente prive di interazione con
l’afflato perenne dell’essere. Eppure è anche qui, nel lato labile e transitorio
delle cose, persino nell’ambientazione urbana (che, lo vogliamo o no,
interagisce in modo silente con la nostra sensibilità più profonda) dove si
acquatta una porzione di universale.
Ed ecco che in un codice visivo tra
“marciapiedi” e “grigiore dell’asfalto” esplode la nota accesa e stridente di un
iris, “ostinato usurpatore di uno spazio metropolitano”, oppure in Seguendo
una musica di passi , “sui marciapiedi logori / la fuga alla malinconia del
lunedì /…/ il tempo di guardare il mondo / scendere da questa nuvola d’acciaio”,
accarezziamo con lo sguardo due moderni flâneurs
di baudelairiana memoria, l’uno con “un sorriso verde negli occhi”, l’altro con
“la barba un poco più bianca” e lirica dopo lirica, in questa bella, avvincente
silloge in bilico tra poesia dell’esperienza oggettiva e poesia autobiografica,
comincia a declinarsi una polifonia cromatica, con dominante in azzurro, ora a
stemperare ora a esaltare la corrispondente polifonia degli stati d’animo della
poetessa, innamorata delle cose e del loro mutamento in un gioco di prospettive
alla ricerca permanente della verità.
Alla domanda montaliana “Il varco è qui?”,
fanno eco le parole della nostra autrice: “Serve tornare alla poesia / al gioco
crudo delle verità / occhi che frugano l’invisibile / il verso della luce oltre
la crepa”. È nella “crepa” della poesia, in quel linguaggio per sua natura
deviante dalla norma, che si cerca “la meraviglia dell’approdo”, il dischiudersi
di una realtà altra, altra da sé, altra da noi, ma proprio per questo foriera di
verità e conoscenza. Affiora il concetto della poesia/parola come forma di
conoscenza pur nella percezione mutante dell’oggetto: da qui, dal nostro
immergersi nel divenire, erompe la ricerca della stabilità dell’essere.
Crediamo
che nella poesia, nella poesia vera, come questa di Franca, lontana da autocompiaciuti stilemi dilettanteschi e da egocentrismi di superficie, sia
insita una forma di filosofia, seppure in termini quasi contraddittori o forse
meglio sarebbe dire dialettici. Non vogliamo certo addentrarci nella ben nota
querelle platonica tra poesia e filosofia, molto più semplicemente
intendiamo rivendicare, come poc’anzi affermavamo, il ruolo di “conoscenza” che
attiene a quel genere di poeta che, affermava Saba, “lavorerà con la scrupolosa
onestà dei ricercatori del vero”, laddove per “onestà” il grande triestino si
riferiva al duplice senso sia etico che contenutistico (da “onus”, peso, valore
del contenuto). E in questa ricerca di significato sotto la scorza delle cose e
del loro precipitare, un ruolo di spicco ha svolto, in molte poesie della Donà,
il periodo di confinamento sociale scatenato dalla pandemia del Covid-19, in
presa diretta confluita in versi di distillata pena, di sgomento trattenuto sul
filo della pietà. Il riferimento alle date dei mesi di marzo e aprile 2020 non
lascia adito a dubbi e porta in sé la cicatrice già indelebile della storia.
Sotto il peso del mondo, datata “27 marzo 2020, Città del Vaticano”,
raffigura in soli cinque versi la visione di Papa Francesco “sotto il peso del
mondo” in una Piazza San Pietro vuota e lucida di pioggia tra “campane e sirene
/ unite in preghiera”.
Ma è negli splendidi endecasillabi di La primavera dei
balconi che emerge con vigore di immagini la tragedia consumatasi a Bergamo
tra le bare trasportate dai mezzi militari, a dimostrazione che la poesia non è
solo luogo di obliterazione e vagheggiamento. “Saranno ancora rondini a cantare
/ oltre i confini grigi delle case / oltre il lamento, la preghiera / il pianto
dei soldati sopra i carri / le bare senza fiori e senza croci / soltanto il buio
a benedirne il viaggio”. Struttura e temperie dal tono (molto probabilmente
casuale) di quasimodiana memoria capovolgono il tempo imperfetto del primo celebre
verso di Quasimodo da un’orazione di senso negativo a una di senso affermativo. “E
come potevamo noi cantare” di Alle fronde dei salici vira in un futuro
che tuttavia non ha l’uomo per soggetto: “Saranno ancora rondini a cantare”. E
in un clima simile a quello di guerra, la poetessa ribadisce “Non ci sarà un
ritorno, non ci sarà / un altro treno verso il mare, mai più…”.
Ma, al di là
delle incerte prospettive legate a questa lunga stagione pandemica, l’uso del
tempo verbale futuro è insistente nei versi della Donà e più spesso si tinge di
fiduciosa attesa: “Aspetteremo insieme / il sole dietro il mandorlo
/…/riscopriremo la perfezione dei dettagli” (in Il sole dietro il mandorlo)
o, ancora, in Lo spazio dell’attesa e in Saranno i fiordalisi, si
carica di gioia per l’adorata figlia in procinto di diventare mamma: “l’assoluta
dedizione alle due sillabe / (la brevità di un nome immenso)”. La galleria degli
affetti non può non attraversare i versi di un poeta e le immagini dei figli,
dei nipotini, il ricordo del padre, affiorano con serena commozione, ma è
l’imperativo del lutto per la madre, recentemente scomparsa, che occupa uno
spazio sacrale nelle pagine della Donà, senza tuttavia mai indulgere in scorie
di pianto scomposto. Nella “ovvietà sublime del consueto” (in Ti regalo il
mio buongiorno), l’autrice sperimenta che il viaggio nel ricordo “ci ridona
il tempo, / il tempo che non muore mai” e, quasi anticamera dell’eternità,
assapora “la gioia degli attimi per sempre” e “il tuo essere immortale / oggi,
sempre nel mio cuore”. Altrove, una struggente memoria olfattiva erompe in
associazione al ricorrente ventaglio cromatico e allora ecco che rosso, viola,
beige, turchese e smeraldo zampillano dai cassetti evocando la vista dell’amata
madre: “Ho il naso dentro la tua vita / se ancora fosse tua la vita / se fosse
adesso il tuo respiro / non la memoria di un profumo” (Dentro la tua vita).
Dicevamo dell’alta
frequenza del cromatismo lessicale nella presente silloge e forse la stessa
professione della Donà, in ambito della riabilitazione psichiatrica, potrebbe
fornirci indizi precisi per lumeggiarne meglio le correlative valenze sottese.
Ma ora ci interessa additare al lettore l’altrettanto consistente indice di
frequenza di certi lessemi in qualche modo legati al simbolo atavico della
soglia, del passaggio. Balconi, finestre, cancelli, persiane, cortili, stanze
aperte, ponti, strade dai cigli infossati, stazioni, marciapiedi, vetrine, non
hanno solo a che fare con un’ambientazione urbana cara all’autrice e alla poesia
contemporanea nella stessa misura in cui è caro il respiro della natura, ma sono
echi di un varco, di un passaggio verso l’altrove, del senso della soglia. Nelle
antiche mitologie esisteva una creatura che come Janitor, Giano bifronte,
era posta a custodia del diaframma tra conoscenza e mistero, tra profano e
sacro, tra la superficie e l’abisso. Il poeta è una specie di custode di questa
soglia che travalica i confini del linguaggio denotativo per spingersi nella
connotazione, al di là di ogni aspetto puramente referenziale e razionale, in
una ricerca spesso inconsapevole nella quale è coadiuvato dal vasto repertorio
di figure retoriche formali e semantiche, a loro volta usate in modo non sempre
consapevole. “Nel finire del buio / percepire il senso d’inizio / scolpire il
silenzio di luce / l’accenno alla vita / senza pretese di confine / mi accingo
al giorno che nasce” (Accingersi al giorno).
Non sappiamo né ci interessa
sapere se la bellissima catena sinestesica “scolpire il silenzio di luce” sia
prodotto di un processo controllato, poiché l’impronta psichica nel lettore è
potente e veicola, tra l’altro, proprio quel senso di passaggio di cui dicevamo
poc’anzi. Nel verseggiare maturo della Donà la robusta presenza del tempo futuro
appare agganciata proprio al senso della soglia, alla volontà quando non alla
necessità interiore di intraprendere il viaggio-passaggio verso rinnovati
orizzonti in una visione non accigliata della vita. Il pessimismo, la tristezza
che adombrano certi versi, motivati da accadimenti inconfutabili, di per sé non
sono condizioni per una pervasiva meditazione cupa sull’esistenza. Prova ne sia
il leitmotiv dei lessemi “ali”, “volo” o “vele” che, annodandosi al simbolo del
viaggio della vita, stanno a denotare un impeto di fiduciosa tensione verso
l’avvenire. “Noi col miraggio negli occhi / di un viaggio senza carovane /…/ ali
che sognano di varcare mondi / così, come nel sogno, noi di saper volare” (in
Miraggi). E ancora: “Stendilo piano, il viaggio, / se mai avrò le ali per
volare / per fare come fanno poi le rondini / quando ritornano per sempre al
nido / quando ritornano per sempre al viaggio” (in Se mai avrò le ali),
un viaggio “in cui noi siamo solamente vele” (La meraviglia dell’approdo).
Ma la poesia è anche
strumento di indignazione e di accusa e non può non tener conto delle piaghe
della società e dell’abbrutimento dell’uomo. I versi di denuncia di stupri e
femminicidi (ricordiamo, tra le altre, le liriche Ridatemi la vita, per
Hevrin Khalaf e Un volto nuovo per il giorno dedicata al noto caso di
Lucia Annibali), dello strazio dei migranti (“sponda dopo sponda e ancora il
mare / migrano oltre il senso del migrare / la gola squarciata nell’urlo del
respiro”, in Prodigio d’azzurri) seguono sovente un andamento con indice
di metaforicità più trattenuto, a esprimere la vemenza dell’accusa e dello
sdegno. La condivisione del dolore altrui si allarga ai versi dedicati a un
malato di sclerosi multipla (Raccontami le mani), alla vergogna storica
della Shoah che “oltre quel filo / chiede soltanto la memoria”, affinché “tutta
quella vita / non sia mai soltanto fumo dal camino” (Nel vento) e si
estende al dolore cosmico evocato nella distruzione delle foreste alpine ad
opera della tempesta Vaia che nel 2018 sradicò milioni di abeti secolarmente
destinati alla costruzione dei violini. La figura retorica della prosopopea,
reperibile nella Donà in notevoli esempi di personificazione di natura e
oggetti, si spinge allora in una lacerante quanto inusitata rete di nessi in
riferimento alle camere a gas naziste: “Usciranno dal camino / come ad Auschwitz
/ e allora qualcuno sentirà / ancora Stradivari sopra i monti”. (Il pianto
dei violini).
Ma è con la felice
personificazione della “piazza che apparecchia il giorno” che vogliamo
congedarci da questa preziosa silloge: in un connubio paradossalmente divaricato
tra aderenza al valore referenziale e distanza dall’oggetto stesso a cui si
riferisce, la Donà fa propria la dimensione dello straniamento insito nella
natura stessa del linguaggio poetico, intuitivo, evocativo e alieno da formule
di serrata corrispondenza con il dato oggettivo. Parimenti, in molte liriche la
scelta dell’ossimoro sta a denotare questa volontà di accostarsi a una visione
non asfittica della realtà, non delimitata da leggi imposte, sia pur naturali.
Anche la poesia La verità degli anni, che dà il titolo alla raccolta,
ribadisce mediante l’ossimoro concettuale degli ultimi due versi un radicato
legame positivo-oppositivo con la vita, a dispetto delle ineludibili avversità:
“questo mio dolore /…/ sembra essere solamente amore per la vita”. Non a caso
asseriva il filosofo poeta Ralph Emerson che “la poesia deve essere
affermativa”, essendo nient’altro che “la pietà dell’intelletto”.
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