| |
Sagrato di luce
Nullus locus sine Genio,
diceva il commentatore latino Servio, riferendosi al Genius Loci,
spiritello, presenza sovrannaturale e al tempo stesso immanente al paesaggio e
che del paesaggio si credeva assorbisse le più sottili peculiarità. E ancora, in
tempi più recenti, ammoniva Byron: non oltrepassare, senza averlo benedetto,
il genio del luogo!. Ebbene, leggendo i versi di Sagrato di luce di
Francesco Dario Rossi, pare proprio di percepirlo il genius loci di
Trigoso, nelle splendide vedute paesaggistiche dipinte in punta di penna, nei
piccoli tesori architettonici consegnati con amore al verso, il tutto permeato
in filigrana da una luminosità di colori e di luce e da una freschezza di aromi
a contrastare una malinconia solo appena percepita.
Un paesaggio, quello di
Francesco Rossi, inteso come scrigno del mondo, come microcosmo nel macrocosmo,
filtrato da un rapporto mitico con la realtà e con la storia, un paesaggio che
nel suo solido ancorarsi nelle tradizioni si propone di redimere il tempo dalla
maledizione della sua precarietà. È, la sua, una poesia brandita in atto di
ostilità contro la storia, ma una storia intesa come fluire divorante (acre è
il sapore della storia) e non come saldo retaggio di valori tradizionali (nel
profumo di ricordi millenari), amorevolmente cantati nel Presepe, nella
statua della Vergine, nel “sagrato di luce” della Chiesa di Santa Sabina. E la
versificazione con le sue assonanze, i suoi parallelismi lessicali e sintattici,
le sue rime desinenziali (elementi tutti, tra l’altro, così bene accolti dalla
lingua spagnola nella cui traduzione si propongono le poesie a beneficio dei
numerosi abitanti del posto emigrati in America Latina), concorre a ricostruire
quel senso di armonia che non si vuole perduto, senso di armonia nel quale Mario
Luzi ravvisava il fine ultimo della poesia stessa:
“Qualunque vera e
motivata poesia tende a ricostruire un universo perduto: anche se non lo sa, fa
questo; e si tende e si modella a questa aspirazione, a quel fine per la maggior
parte inconscio. Le immagini e il ritmo, e la metrica, il verso collaborano alla
costituzione di un ordine che riflette il misterioso ordine perduto e percepito
come mancante; in ogni poesia c’è questo senso di vacanza, questo senso non di
immobilità su sé stessa, ma di movimento per il rimpianto e verso qualcosa che
le manca. E questa mancanza è simultaneamente causa di rimpianto e di attesa”.
Tale riflessione si
attaglia perfettamente al sentimento “di rimpianto e di attesa” fiducioso e non
sterilmente pessimista che si evince dalle liriche e dagli scorci di Sagrato
di luce, nel ridente “Trigaudium” che, tre volte felice, reca la
felicità nel nome.
Azorìn, grande prosatore e
saggista spagnolo, cantore di una Castiglia mesetaria arida e inclemente, ben
diversa dalla dolcezza della riviera ligure, fornì una celebre quanto
paradigmatica enunciazione in chiave psicologica del paesaggio, di qualsiasi
paesaggio: “El paisaje somos nostros; el paisaje es nuestro espíritu, sus
melancolías, sus placideces, sus anhelos”.
Ampia condivisione in tal
senso ravvisiamo nella percezione che del proprio paesaggio ha il nostro poeta
di Trigoso, per il quale la fiaba salmastra del mare si stempera in
carezze d’infinito dove sentire il profumo del sacro e rinnovare
il sapore del tempo. Nel fondo della sua anima sogna indelebile il
suo borgo di quiete.
| |
|
Recensione |
|