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Lo sguardo, Troia e ogni giorno
In La poesia italiana contemporanea in
Sicilia
Lucio Zinna ha enucleato la sua posizione
di poetica: «Mi sento vicino – ha scritto
– a tanti, anche fra loro diversi e per diversi
motivi. Tra gli stranieri, per esempio, sia Borges che Ritsos; tra gli italiani: Luzi e Accrocca.
Sono, in maniera diversa, testimoni del tempo, esploratori dell’anima. E riescono a comunicare, ciascuno in modo personalissimo,
rifuggendo tanto dai chimismi quanto dalle
concessioni all’ovvio». Un punto certo è il
rifiuto della poesia come confessione: l’obiettivo da seguire, per Zinna, resta la poesia come ricerca
della verità che diviene incessante
ricerca linguistica. E già in alcune liriche
del ’78 G. Zagarrio aveva individuato nel poeta una forte pregnanza
significativa per lucida
semplicità del dettato. Un dettato che mostra
subito l’incontro felice del registro letterario
con quello aspro della cronaca giornaliera,
trasformata in mito e ricomposta nel suo ripresentarsi
nelle cose vicine e usuali.
Così,
ora, in
Abbandonare Troia (…) il discorso
poetico dell’autore mantiene i temi del
vissuto, del concreto in un territorio
leggendario, raffinato,
calligrafico, portato fino all’estrema
zona del visionario, ma anche ritessuto in trame familiari, tendenti all’umile,
al dimesso, al corrente mormorio dei giorni.
Apporti del parlato, con immagini che dall’usura
ritentano e raggiungono un nuovo volo,
convalidano la presenza del giornaliero e,
intanto, transita un collaudato esercizio letterario,
giocato sulla parola da tempo ascoltata e
sempre più studiata, resa ricca di altre
suggestioni, caricata di una nuova
forza sentimentale e intellettuale e
soprattutto governata dall’ironia, da una forma di gioco (e di pietà) che permette al poeta di
stare fuori dagli urti della sua
materia accesa, autobiograficamente
scandita, e di vigilare su un percorso, privato o di esperienze collettive, avviato a scrollarsi
ogni moralistica remora.
E inoltre Zinna
non abdica a un impegno civile che attraversa
tutta la raccolta e a una risentita presenza dell’io protagonista del suo mondo sconvolto e ferito: «Tu
sapevi madre che la vita non mi
avrebbe serbato | che sorprese e inconfessati
strazi ed era questa | la tua pena d’andartene
e ignorare le
strade | percorse da un figlio «fattosi
presto adulto eppure | rimasto indifeso»
come tu eri stata quando | il cuore avrebbe detto basta una mattina |
d’estate all’improvviso | tra un ferro da
stiro e le stoviglie. | Non poterti
più dire una parola | e si bruciavano
i tuoi ultimi istanti...».
Banditi i percorsi illustrativi e contemplativi,
Zinna privilegia una poesia-racconto, distesa
nella misura lunga ma non necessariamente informativa e fondata su intrecci;
cantabile
ma di un canto liricamente filtrato dalla pena
e dall’esercizio tecnico, e volta a denunciare il
dramma del vivere sotto travestimenti di metafora
– il viaggio di Ulisse, il vagabondaggio
del cavaliere «con le sue macchie e con le sue
paure»
–
e a rastrellare un’«esile epopea»
delle vicende comuni, dei gesti di sempre, da
una regolarità insidiata dalla sua eco, da uno slontanante riflesso che trasmuta «ogni luogo
in trincea | d’accaniti conflitti».4 dicembre
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Recensione |
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