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La lanterna magica di Giordano proietta cieli, terra, paesaggi di pietra, animali sfiniti dalla fatica, uomini ugualmente sfiniti che hanno “mani e parole callose”; snoda gli emblemi di una ritualità antica e pur sempre nuova, che ha il gusto delle leggende e delle filastrocche snocciolate nelle quiete sere d’inverno, la cadenza delle nenie arabe tristi e dolcissime, come triste e dolcissima è questa vita sospesa tra Tutto e niente. Poesia di contrasti, quindi, in cui le parole giocano a rincorrersi, mescolando profumi di basilico, origano e menta selvatica, la fragranza del “pane cotto al forno di campagna” e gli odori acri delle stalle e dei vicoli bui, gli odori della fatica e della pena di esistere. Tutto si alterna, sfugge, si smarrisce, ritorna ancora. E’ il ciclo del giorno e della notte, con la colonna sonora delle cicale e dei grilli che imprigionano l’anima nel sortilegio del loro canto ossessivo, è l’avvicendarsi delle stagioni, il trascolorare delle distese assolate e dei volti degli uomini in un’arsura che non è solo fisica, che incendia e consuma corpi e anime. Se il mondo è un inventario di segni indecifrabili, il dubbio prelude ancora alla ricerca, nell’attesa “che s’alzi dal villaggio la colomba | nascosta dentro il nido della torre, | aereo filo raccolto chissà dove”. Il sogno è ancora possibile: il dolore non esclude la lotta, l’oppressione non impedisce l’ipotesi del riscatto, la fatica non trattiene dal cammino. Si impone un’istintiva pietà, un filo che lega i “cafoni” siciliani senza terra e senza illusioni, perduti dietro il loro eterno imprecare fra le “trazzere” riarse, e l’ex modella sessantaquattrenne che si lascia morire di inedia e di solitudine in uno squallido angolo urbano di Parigi. Di contro, il mito della giovinezza, ubriaca di vita e di amore tra i papaveri nel solstizio d’estate, ignara, incantata. Gli esseri umani sono creature perseguitate dall’infinito, perennemente smaniose di trovarne la traccia labile inscritta nel travaglio quotidiano: “Affiorati dalle viscere dei secoli, | egli, tu, noi, come origano | fra l’erba, frammenti d’eterno” La parola consola senza tradire il senso della realtà, è espressione di una dignità insopprimibile che si effonde nel canto: “Per questo il pittore distende | coltri luminose di tetti | a chiudere il tempo in gabbie di luce”. |
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