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Quinto testo poetico dell'autore fiorentino, questo poemetto in 64 lacerti (insignito, tra l'altro, del Premio Firenze 1993), e dal linguaggio estremamente rigoroso e imaginifico, rappresenta una lunga dolorosa marcia di avvicinamento al divino (cominciata, peraltro, già nei suoi precedenti libri, Pavana per una madre defunta, ed anche – sia pure per un cammino inusitato – Torbidi amorosi labirinti). Un divino invocato, diuturnamente forzato all'esistenza («Fa', Dio, | ch'io riesca finalmente a inginocchiarmi | sull'umile pietra del mondo | davanti al Tuo Mistero | con tutta la mia mente ignuda | come una povera pagina bianca»), attraverso l'esplorazione impietosa nell'abisso più fondo del sé: e ben a proposito l'autore è chiamato, nella prefazione (Vettori), «entronauta», «Ulisse dell'anima». Dico forzato perché la presenza di Dio, inalienabile da ogni pagina, da ogni verso, è in realtà una presenza-assenza, il fine ultimo di una ricerca il cui esito è solo (ma non solo) volontà, speranza. Le grida «eretiche» sono appunto quelle dell'eremita soprattutto perché – almeno inizialmente – inchiodato alla ragione. Il suo percorso, attraverso i vari incontri-scontri con un Dio ipotetico, inverosimile, malvagio, è perciò una graduale liberazione dalle scorie del proprio io, fino ad un ritrovato rapporto (ancora una volta, `eretico') col divino, laddove si implora il «terribile stupro», la consumata 'digestione' per cui finalmente l'uno divenga parte inalienabile dell'altro.

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