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Questa è l'impressione generale. Io credo, però, conoscendo il libro precedente, Pavana per una madre defunta, che qui ci sia uno sforzo terribile di andare al di là di quel libro, in una ricerca che è vista in partenza come inutile ma necessaria. Il primo a entrare subito in scena è il tema di Dio; il quale è sempre presente. Che Egli esista, o non esista, è quasi marginale, poiché la sua presenza si sente nella ricerca dell'eremita protagonista dì uscire dalla totale negatività della materia, dalla corporeità della materia. La mole impenetrabile dell'universo è appunto questa incomprensibile corporeità della materia. Questo era anche il tema della Pavana; ma qui, in questa lunga guerra con Dio (che poi è un tema biblico, la lotta con Dio di Giacobbe, cfr. Genesi 32, 23-33) si tenta di capire l'universo e in qualche modo si richiama la parola di Dio. Questa lunga guerra con Dio diventa a un certo punto lotta contro la ragione stessa, quindi contro un Dio che viene visto cattivo, perché in fondo ci è sempre stato presentato attraverso gli sforzi della ragione pura, cercandolo «con l'ottusa arroganza del cacciatore, | non con la speranza del cieco». Questa è una cosa terribile, perché riguarda tutti noi, i preti; noi che dovremmo annunciare il Vangelo e invece l'abbiamo appiattito. Usando sempre espressioni tratte dal libro, Dio è stato «spodestato | da una grigia dinastia di potenti | ... aquile guardiane | dei sepolcri del cielo»; e io mi sento di riferire a noi questa frase, poiché non abbiamo saputo offrire Dio al di là di dimostrazioni, teoremi, trattati di filosofia. Io credo che questa grigia dinastia sia in fondo la tradizione, che inevitabilmente coarta la grandezza del tema di Dio dentro schemi prevedibili e quindi non spiega nulla. Anche qui c'è un Dio che non dice nulla, a fronte di una ragione che non dice nulla; quindi c'è uno scacco di Dio, prima, e uno scacco della ragione dopo; c'è una guerra con Dio e un fallimento della ragione; e la ragione è appunto l'arroganza del cacciatore. Quindi io credo si possa vedere, specialmente nella sezione del libro-diario che va dal paragrafo 6 al 23, una fuga dalla ragione, dalla ragione che mi uccide, che non mi fa capire. Ma ora entra in scena un secondo tema, che è ancora un tema del libro precedente, quello della corporeità delle cose, la paura della morte inchiodati alla terribile croce della ragione. Io sono un teologo, ma guai se la mia teologia fosse solo esclusivamente un ragionare; io devo ragionare con qualcosa dentro, poiché la ragione è uno strumento, non uno scopo. E certo la pura ragione, che fa dire al protagonista l'invettiva «malvagio Iddio»; che però non è una bestemmia, non si può prendere come tale perché in fondo è un atto d'amore. La ragione dice ch'Egli distrugge le sue proprie creature; ecco la paura della morte, il dolore del mondo, la sofferenza fisica. La ragione dice che gli esseri assoluti, tipo Dio, tipo Cosmo, non conoscono l'amore, stanno lì freddi, insensibili al dolore e alla morte nel mondo; e allora il protagonista cerca di risolvere tutto identificando Dio con il Cosmo; c'è anche, nell'ultima pagina, una nota che richiama a Giordano Bruno. Identificare Dio e il Cosmo nella sua interezza sembrerebbe incomprensibile; però questo richiamo a Giordano Bruno in realtà rinvia alle moderne concezioni cosmologiche, che vengono appunto adombrate nel libro di Scarselli. C'è dunque tutto un retroscena scientifico, che io non mi posso soffermare ad illustrare perché mi porterebbe a una critica della ragione scientifica, del suo tentativo di interpretare l'uomo in base al computer. Nel libro ovviamente non è scritto così, ma io ce lo vedo dietro. E proprio quello che noi stiamo tentando di fare oggi: abbiamo cominciato a costruire l'intelligenza artificiale, cercando di riprodurre in qualche modo il funzionamento del cervello umano; abbiamo poi capovolto il processo e si tenta, volere o non volere, di riprodurre il cervello umano, ma sulla misura del computer; ci insegnano a pensare con quelle duecento parole del computer e a fare quel numero preciso di nessi logici, perché solo quelli hanno senso, dato che nel computer le sensazioni non sono percepibili. E tutto ciò distrugge l'Io. Ma questa è una parentesi mia, in supporto al dramma che Scarselli ci rappresenta ai paragrafi 24-27. Dopo il tema di un Dio silenzioso che non si manifesta e dopo il tema della ragione che fallisce, ecco dunque fallire anche il tema del Cosmo, perché non rende ragione del mio Io, tende a distruggere il fatto che io sono io, che non sono un altro, che ho una mia irripetibile originalità di percorso e di sentimenti. Questo è il quadro del totale fallimento: fallisce la ragione, fallisce la corporeità, fallisce il cosmo; anche il cupo ego, però gonfio di tenerezza, è incapace di gettare un ponte al di fuori di sé perché è distrutto da una lettura di Dio cosmologica, o meglio panteistica, pur tendendo in qualche modo sempre ad aprirsi, a cercare contatti, con Dio ma anche con gli altri; e poi c'è questo Dio misterioso che rende impensabile una spiegazione del Tutto di tipo razionale, materiale, cosmologico. Fallisce dunque Cartesio e fallisce anche il Dio matematico di Leibniz, questa monade (la monade viene spesso nel libro di Scarselli richiamata) chiusa in se stessa, che non ha assolutamente bisogno di collegarsi con le altre monadi; e allora ecco il grido: «Svelaci Dio | il mistero di quest'io così simile | al tuo». Qui già si cammina verso qualcosa di diverso, c'è una ricerca di qualcosa che né la ragione, né il cosmo, né la religione ufficiale, istituzionalizzata, può spiegare; entrano in scena gli altri. Questo io raggrinzito – la monade di Leibniz è veramente un io raggrinzito – si chiede quale Dio romperà i confini dell'io per far sì che si apra agli altri; e si sente (52) che il tono del diario va trasformandosi completamente. Dice proprio: «ora occorre fuggire», fuggire da tutto questo, dagli escrementi insopportabili della ragione, per andare al di là. Ma dove, se non abbiamo più niente? Ora il protagonista è passato dall' arroganza della ricerca, cioè dall'«arroganza del cacciatore», alla «speranza del cieco | del paralitico, del Lazzaro, del disperato», all'umiltà di una ricerca amorosa. Dall'«impudicizia della superbia», che solo con l'amore si farà perdonare, è passato alla pietà; e si accosta a tutto con I'animo non di chi pretende di spiegare il Tutto, ma di chi umilmente lo «accoglie», di chi cerca di convivere, in maniera pacifica, serena, col Tutto; si accosta amorosamente alla materia e agli altri (56) e chiede perdono a Dio per il caparbio dubitare. Che questo Dio sia un essere personale, trascendente, resta impregiudicato; per me lo è ovviamente, altrimenti non sarei prete; ma dietro questa parola, Dio, ora c'è nel diario dell'eremita qualcosa di veramente definitivo, qualcosa che non colloco dietro processi raziocinanti, che non posso mettere nella definitezza del cosmo, ma qualcosa cui posso arrivare solo con quello per cui non vi è altra parola che Pietà: la pietas, questa umiltà di fronte al Tutto. E allora tutto ritorna a rispondere, la materia, gli altri, lo stesso Dio, ritrovato con un approccio completamente diverso, di vicinanza, di rapporto; in luogo dell'impotenza, si ritrova la capacità di gettare i ponti al di là del nostro io. Questo era stato il percorso: prima la richiesta arrogante, a gran voce, di trovare un Dio, poi gli errori della ragione, la materia, il cosmo, l'ego, infine gli altri esseri umani; ho già citato i numeri in cui si passava da un momento all'altro di questa sequenza. Forse non è una sequenza logica; io credo sia piuttosto l'espressione di un tormento che non si ferma mai nel cercare di approfondirsi e di sperare. Quindi tutto questo dubitare non è una cosa brutta: vuol dire non accontentarsi mai, non esser mai sazi; vuoi dire riconoscere la propria finitezza e accettarla; e con questa finitezza spogliarsi per ritrovarsi col corpo dentro il mondo, insieme agli altri. Ecco, questa è stata la lettura del libro di Scarselli così come io l'ho fatta. Ora vorrei aggiungere alcune considerazioni mie, come uomo di fede, di annunciatore di Vangelo. La prima è questa. In questo libro si riflette con molta lucidità e grande sbalzo gran parte della tradizione teologica cristiana nel pensare a Dio con le categorie greche del demiurgo, del creatore, dell'ordinatore del cielo e della terra; invece di pensarlo, come ha fatto direi tutta la tradizione biblica, come Essere amante, dispensatore di un amore che è qui, presente in mezzo a noi. Vi ricordate il cosiddetto piccolo credo del deuteronomista, che risale al 600 a.C.? Il credo dell'ebreo, siamo all'epoca di Geremia, era questo: «Mio padre era un arameo errante, povero uomo viandante del deserto; allora Iddio ha fatto di lui una grande famiglia, l'ha mandato in Egitto, l'ha liberato dalla schiavitù, l'ha condotto attraverso i mille pericoli del deserto fino al dono supremo della terra» (Cfr. Deuteronomio 26, 4-10). Vedete che qui non si crede in un ente a sé, in un motore immobile; si crede in un Dio che ci è sempre presente con la sua bontà e con la sua misericordia; è l'approccio a un Dio visto come il Dio misericordioso, il solidale, di cui tu non percepisci forse l'esistenza ma di cui poi a un certo punto ti accorgi. Il più grande sbaglio è aver ricondotto tutto l'annuncio di Cristo a una teodicea tipicamente greca. La seconda osservazione è che in questo libro c'è sicuramente una terribile messa in guardia, che Scarselli ne sia cosciente o no, contro una certa tendenza attuale verso forme di religiosità cosmologica, in cui annega Dio, e l'Io, e l'amore stesso; e un'altra messa in guardia contro tutte le forme di religioni spiritualistiche che vogliono annullare la materia; per esempio il buddismo, che in alcune varianti più forti rappresenta proprio questo annullarsi totale. Quella di Scarselli invece è una religiosità radicalmente giudaico-cristiana, una religiosità che è come un sospiro verso il Vangelo. Ma ecco, io credo che il Vangelo – questo Dio che ci appare in nostro Signore Gesù Cristo, immagine perfetta del Padre – sia anche il limite del cammino di Scarselli, un limite che va forse superato. Nella visione del Vangelo, i cui temi peraltro sono tutti presenti nel libro, l'amore fra esseri umani non bada più alla materia dell'amato; a chi ama non interessano i singoli organi, i dettagli anatomici; anzi, tutti questi sono bellissimi se li prendo guardando l'altro tutto intero nella sua unità. Chi ama non è come il medico positivista, che ha davanti a sé soltanto un meccanismo, un corpo da osservare, tagliare e ricucire, bensì vede l'essere umano nella sua globalità, e quindi anche la corporeità è bella; come Gesù che tocca il lebbroso. Lo stesso accade nell'amore fra uomo e donna, in cui non si è interessati ai singoli dettagli, ma interessati tout court all'altro; e allora anche ciò che può apparire materialmente ripugnante diventa bello, perché non è qualcosa che vive per conto suo: è l'altro che io incontro e accolgo e faccio mio; e questo è il vero significato, fra sposi, dell'essere una sola carne. Questo è dunque la passione per l'altro, e non solo per l'anima dell'altro, ma per l'altro così come mi è dato. Allora tutta la negatività di cui era caricata la materia in Pavana per una madre defunta di Scarselli non ha più ragione di essere; essa non è più brutta, paurosa, ripugnante, perché questo è il modo di esprimersi, davanti a me, dell'altro; e io lo accolgo e lo accetto con umiltà. Ecco, io credo che questo sia il punto, il varco, il salto ancora da fare, che io offro a Scarselli come lui ha offerto a me il suo libro: pensare anche l'eterno Dio, e il mondo, con lo stesso amore globale che si ha per una persona nella sua interezza. Per un cosmo anche, nella sua interezza, con tutte le sue cattiverie, le bestie che si mangiano fra loro; un cosmo in cui io vivo e di cui faccio parte e in cui posso agire. Quindi io non sarei d'accordo del tutto con la prefazione di questo libro, perché Scarselli non è tanto un entronauta, un Ulisse che viaggia al proprio interno, quanto uno che cerca disperatamente di andare al di là; è un viaggio dentro di sé, ma per uscirne; questa chiusura in se stessi è disperazione, ma nel momento in cui capisco che io son qua per l'altro, sono anche aperto all'altro. Allora tutto si ridimensiona intorno a questa capacità profonda di ogni essere umano, credente o non credente, cristiano o non cristiano. In questa occasione io devo ringraziare Veniero Scarselli per questo cammino, cui io vi ho introdotti in pochi minuti, ma che a me è costato molte ore di riflessione utili e feconde anche per la mia vita spirituale. |
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