| |
Chi ha scritto
Pavana per una madre defunta, un giorno o
l'altro doveva scrivere Il Palazzo del Grande Tritacarne; il mio non è determinismo, è una semplice deduzione di lettore. Qui
difatti c'è la conferma e l'estensione d'una linea che muovendo dalla Pavana
trascende quel dolore personale e si trasforma nello sviluppo universale del
tema, nella spietata messa a punto d'una ossessione che governa le giornate
invisibili dell'anima scarselliana. E che è esplosa con un carattere molto
"contemporaneo" che porta segni danteschi e kafkiani e li macina con mente
d'oggi, scartando cioè il lirico-ornato ed assumendo invece il fermo sguardo
del razional-speculativo. E allora al Purgatorio viene tolta quella patina di
dolce attesa, immergendolo nella fisicità martoriata da un destino espiatorio di
una colpa oggettivamente inconosciuta ma essenzialmente sentita come "peccato".
E' chiaro che la lunga osservazione del Male – il problema dei problemi
dell'esistenza – ha condotto Scarselli a scrutarne la capillare organizzazione
nella persona vivente, che reca in sé lo stigma occidentale, profondo e
misterioso, del cristianesimo. Il Tritacarne è presa di coscienza, è
testimonianza, è quasi-relazione di un'incombenza disumana, di un passaggio che
noi tendiamo ad accantonare travolti da un provvisorio ottimismo, da
un'immagine rimandabile che vorrebbe sostituirsi alla coscienza (!)
dell'Essere. Amarissimo libro, certo, ma chi non vedrà che al suo fondo vibra
senza quartiere una necessità di speranza? Chi scrive libri così, non Io
farebbe se non avesse dentro una religiosa urgenza che non si appaga di
liturgia ma lotta corpo a corpo contro la rassegnazione, attorcigliandosi a
quel filo di speranza sottile ma resistente. Poesia etica, dunque, cioè di
quella specie che va mancando perché manca all'uomo, oggi, il suo centro. Nella
sua globale eticità – primario intento del Poeta – la parola è costantemente
piana, libera da deviazioni estetizzanti, diretta senza preliminari al pensiero
del lettore, obbligato dunque a riflettere, a farsi residente nel Palazzo, a
scontare con coraggio i tempi dell'attesa, sino a quella Luce, là in fondo.
| |
 |
Recensione |
|