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Indie occidentali, un viaggio nella nostra storia
Indie Occidentali, secondo romanzo del bravo Giancarlo Micheli,
parte da una storia di emigrazione. Una storia che ha a che fare con il secolo
scorso, di quando erano gli italiani a dover emigrare fuori dal proprio paese.
Protagonisti questa volta non sono meridionali, non sono contadini “ignoranti”
del rurale Mezzogiorno ma una coppia di sposini toscani e alfabetizzati,
consapevoli del proprio valore e con obiettivi da perseguire ben definiti.
Quando penso
all’emigrazione italiana penso a quella splendida figura di Amerigo,
creatura di gucciniana memoria che lascia il proprio paese, Pavana. E mette
dietro a sé le proprie radici con ancora in corpo “il primo vino di una
cantina” per non manifestare quella malinconia che penetra nelle vene e
nella coscienza.
Micheli ci racconta quel
mondo altro,
quello al di là dell’Oceano che ad inizio del secolo scorso sembrava così
diverso dal nostro. Il quartiere di Little Italy, con le sue storie e le sue
“leggende”, anch’esso diversissimo da quello di oggi: quella che era la più
grande e famosa delle “little italies” diventa ogni anno più piccola,
proponendosi oggi quasi soltanto come due strade, parte della Mulberry Street e
parte della Grand Street.
Negli anni venti però
quella zona e in più in generale quella città, l’immensa New York che con
i suo grattacieli immobilizzava lo sguardo, era stata una porta obbligata
d’ingresso, un centro attrattivo, una grande madre dalle braccia non
sempre benigne ma comunque grandissime.
La lotta per l’esistenza si
fa per i due protagonisti, Erminia ed Aurelio, inizialmente più facile ma poi è
la nuova realtà a prendere il sopravvento, una realtà di diritti negati e di
lotte di sopravvivenza. Come un inferno urbano la metropoli si presenta
nelle sue contraddizioni, una massa umana che propone lingue, condizioni e
usanze diverse. Momenti di squisita umanità individuale si scontrano e si
sovrappongono a collettive grida di speranza, la coesistenza degli immigrati e
le problematiche interne, tolleranza, sindacali, la lotta operaia.
Quello di Micheli è uno
squarcio di vita vissuta, un quadro al tempo stesso espressionista e
realista, una meticolosa ricerca storica ed antropologica sul nostro passato e
sul secolo scorso. Personaggi reali e “famosi” – Jack London, Giacomo
Puccini, Mabel Dodge – si incrociano con “perfetti sconosciuti” e personaggi
di invenzione letteraria, creano un cosmo a sé, una riproduzione ben disegnata
di un ipotetico quadro. Il grande merito del libro è poi quello di
inserirsi nella più grande tradizione europea, quella ricerca linguistica
forzatamente realistica che Auerbach riscontrò in Mimesis nei maggiori
autori della nostra storia.
L’uso del dialetto degli
immigrati, il gioco linguistico e sociolinguistico con cui mescola le
situazioni comunicative più disparate e le espressioni locali, un registro
“alto” con momenti di lascivia verbale, fanno del viaggio di Micheli, perché di
questo si tratta, un utopico, colto, continuo desiderio di ricerca. Un
desiderio che prima si fa portavoce della Storia e poi si fa riflessione sul
futuro e su un problema che ora ci vede come protagonisti indiretti e che domani
potrebbe ritoccarci da vicino.
Il Recensore.com
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