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Avevo letto di Danilo Mandolini alcune liriche
apparse su un numero di qualche anno fa de “La clessidra” dell’amico Ferrari,
persona squisita e dotata di infallibile fiuto poetico.
A conferma di ciò mi ritrovo fra le grinfie questo
bel La distanza da compiere, edizioni L’Obliquo, del suddetto autore
marchigiano, che mi colpisce per l’intensità del verso, piano e asciutto eppure
capace di vampate emozionali straordinarie.
Una poesia, quella del Mandolini, di confine, non
tanto geopoliticamente inteso, quanto giocato sul filo di un metafisico esserci
o non esserci, possibile o impossibile, vuoto non vuoto; che molto rimanda al
Caproni di “Congedo del viaggiatore cerimonioso” e, soprattutto, a quello
criptico e testamentario di “res amissa”.
Rimanda, dicevo, ma in un modo precipuo e
fortemente distintivo, personale. Indice questo di un autore che ben ha
assimilato la lezione di una certa tradizione rimescolandola in un derivato
versificatorio di “produzione propria”.
C’è il tempo, in questa raccolta. Il tempo della
nascita, della guerra, della morte, dell’indifferenza, della sensazione per
nulla rassicurante che forse ogni tentativo è vano; pur nonostante, come ci
insegna Fortini, “anche se nulla muta”, occorre scrivere, scrivere per
testimoniare, per vivere, per tracciare appunto la linea, assolutamente non
retta, rappresentata dalla distanza da compiere, affidare ai versi, come
acutamente sottolinea Francesco Scarabicchi nella nota conclusiva, “(…) il
bisogno che tutto non precipiti in quell’abisso di niente dove ogni cosa ha
destino.”
Ci sono immagini e descrizioni vivide di squarci
esistenziali quali:
Il cecchino in uniforme grigia, laggiù.
Il cecchino veglia senza riposo
sulle debolezze del molteplice nemico, (…)
(p. 49)
che altro però non riportano, angosciosamente,
alla ricerca di un senso che non c’è o che sussiste solo all’interno di un
teatro dell’assurdo dove il rovesciamento, o meglio il disconoscimento dei
valori provoca per sottrazione logica un inaccettabile rigurgito di identità e
appartenenza.
E’ una distanza da compiere sopra una terra
desolata, e onestamente mi pare di poter affermare che Mandolini non intraveda
riscatto se non attraverso una stoica determinazione ad andare fino in fondo,
fino a “L’approdo” che sigilla la raccolta:
(…) è attendere impazienti,
affaticati ed infine sorpresi,
il proprio turno per assistere in gruppo
all’apertura di una porta bianca
sui suoni sordi della piazza
e sugli uomini che verranno.
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Recensione |
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