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Agostino afferma: “La vita non è fatta di meraviglie ma di meraviglia.” E’ in questa chiave che va letto il componimento ‘Passione’ (pag.109): «Per comprendere la passione | devi averla vissuta | e per viverla | bisogna che ci sorprenda.» Trasparente allusione: soltanto l’uomo capace di meraviglia e di essere nelle cose è fonte della propria esperienza… vive, non vegeta.

Per quanto a chi scrive sia dato intendere, Luciano Pizziconi è tra i maggiori filosofi del nostro tempo, e non a caso è definito ‘Maestro’ poiché la sua scrittura fluisce direttamente al cuore dei molti destinatari. In questi versi amplia il pensiero agostiniano e lo completa, perché «comprendere» la passione significa saperla ascoltare, affinarla alchemicamente e farne «memoria»: «Per narrare di essa, invece, | occorre che si rinnovi | senza confonderci, | occorre che ci attraversi | ma non ci tocchi.» «Narrare», infatti, è connesso al ripetersi dell’esperienza, che non potrebbe trasmettersi fedelmente qualora non fosse stata autenticamente vissuta. In tal senso, sia che la parola «confusione» debba adempiere il significato di ‘fusione’ che di ‘mescolanza’, il Maestro ci avverte con l’inserimento della negazione… poiché non si può sovrapporre l’io narrante (che è in relazione ad un interlocutore attuale) alle condizioni di ‘allora’ senza falsare l’io che fu agito dalla passione. Se tale premessa venisse a mancare, si avrebbe una forzatura, un “sentimento” che del sentire sarebbe la rappresentazione sostitutiva, non specchio veritiero di quelle emozioni che sanno porre enigmi all’anima, modificando – perché tale è lo scopo della poesia – lo stato e il valore della coscienza di coloro cui viene trasmesso, per risonanza, l’enigma… non il suggerimento.

De la Rochefocauld scrisse: “Il ricordo del piacere non è più piacere. Il ricordo del dolore è ancora dolore”… Il piacere, la cui mancanza alimenta il desiderare e non è sazio che nel presente, è così necessario perché accentua la valenza etica della condivisione di ciò ch’è più intimo e umano, additando a noi, per converso, che soltanto il dolore, sia pure trascorso, riesce a fare ancora del male: «ma il male fatto non si risarcisce, | perché il dolore ha eterna Memoria…», scrive infatti Luciano Pizziconi (‘Eterna Memoria’). Una parte del messaggio rivoluzionario del Poeta, sta dunque nel considerare le passioni come livelli di consapevolezza ascendenti… sicché, viverle nella pienezza, educa l’io ad elevarsi fino alla compassione.

Ma, per concludere, come può “qualcosa” attraversare l’io e non toccarci? Cesare Pavese riteneva che “per dimenticare un dolore bisogna riattraversarlo (sia esso assenza di piacere o sofferenza) fino a ridurlo in cenere…” sicché sembra esserci contraddizione tra i due grandi Pensatori. Ma il paragone non è così esplicito, perché Luciano Pizziconi ritiene l’io «una maschera che la comunità interiore di impulsi e di identità più elementari elegge a rappresentarci» (‘Scritti sull’etica dei linguaggi’), ovvero «il principio fruitore e ordinatore che attiva la relazione che noi diciamo coscienza…» Per cui, se nell’idea di Pavese attraversare il dolore significa consumazione ed oblio, cioè narcosi dell’anima, al contrario, per Pizziconi, l’io è sottoposto al giudizio e alla verità, deve rendere conto alla ‘comunità’ che lo elesse: «liberarsi delle parole, | liberare le ombre: | ricordare soltanto cancella.» (‘Vittime del Sistema’). Ciò significa che solo rammemorando l’io resta immune, perché partecipa e spiritualizza il dolore senza nulla dimenticare. Il dolore, per il Poeta, non va rimosso, ma reso esplicito, denunciato nelle sue cause ed espulso nei suoi effetti. Infine egli sa che assumere la memoria dell’esperienza condivisa riconduce l’uomo all’unità nello spirito, perché lo «Spirito» è uno, e ha dimora ovunque.

In ‘Falsa moneta’ (pag.122), il Poeta scrive: (per quanto falsa) «la moneta, | forse fu ritenuta autentica | e, almeno per una volta, | ebbe corso…», laddove, coloro che si dicono “amici” senz’esserlo, non hanno a disposizione neppure quest’unica opportunità di “spacciarsi”. La moneta è un oggetto che garantisce l’onore di uno Stato, ovvero la solvenza della sua «parola». Come tale possiede un suo valore intrinseco che viene a fondersi con quello (nominale) attribuitogli per consentire di assumerla a simbolo del potere di scambio di una qualunque società, antica o moderna. Non stupisce, pertanto, che spesso si sia provato a falsificare una moneta dandole minor valore intrinseco di quel che possiede e, viceversa accrescendone arbitrariamente il valore nominale. La moneta falsa, tuttavia, è poco riconoscibile ai più che la sorteggiano. Ciò implica che può passare di mano in mano come se fosse vera (autentica) e, quindi, avere corso almeno una volta, dopo la sua emissione.

Le amicizie, invece, rappresentano l’onore delle persone, il cui valore intrinseco e nominale consta unicamente della parola: non vi può essere nulla di soggettivo che ne influenzi il peso senza alterarne l’aspetto. Per cui, quelle di facciata o di convenienza, benché mescolate tra le conoscenza di una vita intera, non passano inosservate, giacché mancano del requisito che le dichiari autentiche. L’autenticità della matrice, o del conio, e cioè del suo «essere», accomuna nell’onore e nella parola il valore rispettivamente implicato di moneta e amicizia. Da qui discendono due considerazioni: la prima impegna il Maestro nel suggerirci di troncare il corso rovinoso e funesto di una moneta fasulla, che in nulla potrebbe giovare alla collettività… La seconda introduce l’autentico valore di relazione quale elemento fondante e tessuto connettivo di una società che prospera nel segno dell’amicizia e dell’accoglienza reciproca. In questo brano, dunque, il Poeta torna in chiave metaforica su un tema ribadito e a lui caro: l’autenticità della relazione quale premessa essenziale del «bene» condiviso e di comunione… denunciando l’attuale monolatria del profitto e la soggezione dell’uomo al denaro, che, tuttavia, non rappresenta affatto il suo “valore” più alto né il suo reale vantaggio. E colpisce il parallelismo voluto tra oggetto e persona, affinché lo scadimento dei termini risultasse più dirompente e incisivo per quanti raramente osano attraversare la superficie del senso per immergersi nella «Res».

In questo terzo brano, ‘La Sapienza’ (pag.217), Luciano Pizziconi afferma: «Per conoscere l’essenziale | devi restare nulla | accogliendo ogni cosa…», versi che sono per noi una prova definitiva della continuità e profondità di pensiero del filosofo e del Poeta. Il Maestro ci avverte infatti che «l’essenziale» potrà esser compreso solo se si resta «nulla», perché l’intima sostanza della «Res» si offre alla nostra esperienza unicamente se si è disposti a concedere quello «spazio di relazione» necessario ad accoglierla… ovvero riducendo lo “spazio” impropriamente occupato dagli eccessi del nostro “io”. Perciò non si commetta l’errore di considerare la parola «nulla» con l’accezione negativa del “niente”, bensì di «vuoto», che nella sua purezza e potenzialità può invece cogliere e contenere «Uno» e «Tutto»… e infatti il Maestro disvela qui un altro segreto: «…occorre ignorare tutto | senza perdere la memoria.»

Ai più sembrerà forse di leggervi un espediente per gestire situazioni di qualche imbarazzo… Luciano Pizziconi, invece, vuol farsi abraso per l’«Altro» e dunque ignorare la propria conoscenza per consentire un rapporto di parità, di empatia, di colloquio, di autentica relazione, che sono al di là degli “a priori”, pregiudizi, diffidenze, barriere… senza però dimenticare quel che costituisce esperienza del nostro vissuto, giacché potrebbe rivelarsi «dono» per colui che abbiamo dinanzi. Perdere la memoria, infatti, significherebbe non poter trasmettere l’esperienza... e tale sarebbe il “niente” per la «Memoria» dell’uomo.

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