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Il mistero della morte è solo in apparenza celebrato attraverso il lamento rituale del figlio sul corpo della madre defunta o attraverso le simbologie che s'addensano sugli scenari grevi, bassi della corporeità. In realtà, la scrittura poetica di Scarselli, deformata stilisticamente dalle tensioni e torsioni espressionistiche che la tormentano, è gravida di significazioni ontologiche, lacerata e fulgurata com'è dalla lotta tra Tempo ed Eterno, tra Materia e Spirito, tra Annichilamento e Speranza-dirinascita, tra Luce e Tenebra. La voce poetica di Scarselli traccia una sorta di dolorosa preghiera a un Dio che si nasconde e resta muto; dice il lamento inconsolabile d'essere stato gettato, con la nascita, sulle «spiagge infelici del mondo» (p. 12), invoca la madre-vita con un inno alla morte.
La morte non è intesa come discesa irrevocabile nel gorgo cieco del Niente, ma si configura piuttosto come un processo graduale di rigenerazione (secondo un modello embriologico, e per così dire, di segno negativo), di ritorno cioè ad una compiutezza «vissuta» solo prima della nascita, quando la coscienza d'essere individuo aveva valenza zero e tutto era felicemente denso e indistinto.
La nostalgia della madre è dunque in Scarselli nostalgia della «morte» come vita inconsapevole, come riassorbimento nel magma indifferenziato del Tutto, nell'Apeiron originario cui torna infine e si placa ogni forma che abbia scontato, con l'esistenza, il peccato della nascita. La madre è figura soterica e analogon di un Dio in cui affonda il finito, spegnendo con la morte quell'anelito lancinante che è la cifra della creaturalità, il segno della separatezza dal Principio.
Il libro di Scarselli ha certo una dolorosa, dura sostanza poematica: è – ripeto – un libro del silenzio, del nulla, un silenzio che però acutamente, tragicamente urla nella bocca dell'uomo il bisogno di Dio, la pena di esistere; un silenzio che grida il nome di Dio con tutta la disperazione di chi non si rassegna al Suo ostinato tacere. Come Giobbe, Scarselli accusa Dio per amorosa disperazione e lo fa con la forza e la chiarezza che sgorgano da un'intrepida interrogazione del male metafisico, della caducità del tutto. Scarselli guarda negli occhi la morte e ne riconosce l'essenza; discende nell'abisso dell'anima, scava gli inferi della psiche e vede che la morte è vita e che la vita è morte. Così il suo libro che parrebbe il libro del nulla, della nausea di vivere, della vertigine che scaturisce dallo scacco della ragione, diventa il libro di una disperata speranza. Il grido di Giobbe sembra allora placarsi nell'amara consapevolezza di Qohelet secondo cui tutto è «havel», assoluta inconsistenza. Come direbbe Gian Franco Ravasi, è possibile sentire come Scarselli, senza essere contro Dio. Anzi, Scarselli semmai testimonia, nelle forme del suo realismo allucinato, espressionista, che c'è una maternità di Dio più tenera proprio con gli uomini feriti dal silenzio e dal nulla, più dolce con le anime piagate da un'insostenibile disperazione, anime per cui la vita è male, la corporeità opaca, intollerabile prigione. L'infinita disperazione si converte allora in speranza poichè, all'infinito, i nostri miseri schemi concettuali perdono significato e appaiono risibili giochi di fanciulli dinanzi a quella coincidentia oppositorum che è il Tutto, che è nel Tutto. Persino nel disperato compatimento di Scarsellí per le creature abbandonate alla vicenda senza scopo del nascere e del perire, per tutte le innumerevoli sofferenze degli uomini e degli animali, per ogni carne torturata, vibra l'infinita materna pietà di Dio per gli individui chiamati, con la nascita, alle desolate spiagge dell'essere. E il bel poeta di Scarselli recita l'amara gnome dell'lo recluso nel carcere del corpo con la tormentante autocoscienza della propria finitezza e con la nostalgia lancinante dell'Incondizionato, dell'Assoluto. |
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