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L'impianto primigenio è sartriano: la morte non è che nullificazione e
non rientra nelle possibilità del discernimento. Eccola qui adesso la morte | la
bestia che annusava da tempo | le nostre tracce; e il nodo problematico
dell'Essere e del Niente si dipana poco a poco fino a divenire panico. La Morte
è il Male, potenza devastatrice anche nei suoi aspetti di "rito sociale": c'è
stato un po' di trambusto, | un ronzare di preti e infermieri | come mosche su
un povero escremento. E' a questo punto che il dolore (imprevedibile,
incolmabile) s'innesta sull'amore di chi riscopre d'essere figlio (poiché di un
carme sulla morte della madre si tratta): Ma questo figlio | non è stato un
amoroso giglio | l'aveva forse perfino scordata (la madre). C'è anche
un'invettiva contro i "branchi" di "cialtroni" che abbandonano le sfortunate
carogne ingombranti dei loro vecchi, che ormai non danno e neppure chiedono più
niente. La denuncia è totale, inappellabile; disvela tutto il disumano della
società "supermarket", dell'uomo-plastica in cui anche la pietà per i morti è
"economica".
La
pietà non può essere umana, ma soltanto divina, come in Foscolo; procede da Dio
poiché se procedesse dagli uomini sarebbe comunque e sempre presunzione. Così
Scarselli trova nella morte la linea di demarcazione della pietà, cioè del
divino; prima d'allora noi non ne sappiamp nulla, perché la morte occorre
vederla, combatterla, tentare di sottrarsi al suo potere, insultarla perché
magari riteniamo ch'essa sia un fatto organico, materiale, definito, della
composizione materica. Ma in effetti, poi, la morte fa tralucere l'eternità; una
sublimazione che avviene nella lunga terribile notte della veglia: Mamma, Dio,
dove siete?... | ridatemi la luce del giorno. Ed è proprio la luce del giorno a
fugare tutti i fantasmi, le maschere, le ombre; il giorno riconduce la morte
alla sua naturale forma di finito; vale a dire che la morte perde il suo
carattere di estraneità, come in Jaspers, la si riconosce come il proprio
fondamento, il punto culminante del compimento, della realizzazione: il Lete
finalmente benefico | della morte. Come Abbagnano, Scarselli considera la morte
sigillo di autenticità, la fine di un'esistenza realizzata nella struttura
d'uomo e, in quanto realizzata, capace di rendere compiuto il rapporto del
finito con l'infinito. Ma se per Abbagnano la fedeltà alla morte "è il solo
atteggiamento degno dell'uomo", non è così per Veniero Scarselli, il quale
rivendica la resurrezione, la riconquista degli affetti, delle carezze perdute,
del perdono. E riemerge fatalmente lo sconforto della fine: Dammi un segno, fa
vedere che ci sei, | che esiste di te in qualche luogo | almeno un'ombra, un
simulacro, forse un'anima. Resta la speranza che anche i morti | possano almeno
stringersi insieme.
Nell'accostamento al divino e al soprannaturale attraverso la morte il referente
più prossimo è Dylan Thomas; come in lui, forte e lacerante è la parola di
Veniero Scarselli, il verso incalzante perché sciolto, libero dalle pastoie dei
ritmi scontati. Ma Scarselli indugia più sul rimorso, sulla revisione
dell'esistenza, mentre in Thomas non c'è traccia di pentimento, l'esistenza
essendo di per sé un assurdo non contestabile, ove la coscienza è continuamente
e perentoriamente compromessa di fronte alla ragione e di fronte all'infinito.
Scarselli sfocia in una dichiarazione di impotenza, per cui il mistero della
vita e della morte è inattaccabile. E anche questo è un momento vitale della sua
poesia.
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Recensione |
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