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Crisi della poesia da crisi di contenuti
Chè discutere di morte della poesia, così in blocco, come da alcune parti si va facendo, ci appare un non senso. "Ben venga", ha scritto Marcello Eydalin, "la morte per la poesia che annoia ... Morte sia per i poeti che non sono tali e che si siedono a tavolino per diligenti masturbazioni intellettuali. Ma vita sia e valorizzazione per tutti coloro dotati di fantasia, sensibilità (non parlo necessariamente di buoni sentimenti, beninteso), originalità e freschezza...". Non appaia strano, per altro, che di questa crisi s'abbia a parlare e che di essa si cerchino le cause e che qualcuno abbia l'ardire di proporre motivi di riflessione o magari di indicare una rotta da seguire per arrivare a rivedere le stelle o almeno talune stelle. Non ci ha sorpreso, dunque, che un poeta nuovo, anche se non giovane, poco conosciuto, anche se non ignoto, abbia composto una "sacra rappresentazione", con cui "tenta d'esplorare le potenzialità della poesia quand'essa abbia il coraggio di immergersi ... nelle profondità del nostro immaginario e farsi strumento di conoscenza e di catarsi" quasi a "mostrare che la crisi della poesia forse deriva soltanto da una crisi di contenuti, o meglio da una sorta di autocensura a trovarne di nuovi, sia come vera e propria investigazione liberatoria nei sottosuoli emozionali più inconfessati e censurati dal comune senso del pudore del lettore di poesia". Tale il pensiero esplicito di Veniero Scarselli [Veniero Scarselli è nato ed ha studiato a Firenze; dopo una formazione umanistica e una fervida sperimentazione poetica, si è laureato in Biologia. dedicandosi alla ricerca scientifica e conseguendo la libera docenza in Fisiologia. Ha svolto diversi incarichi universitari. Da alcuni anni si è ritirato da ogni attività professionale e vive appartato sull'Appennino tosco-emiliano coltivando la riflessione poetica.], un poeta che è venuto affermandosi in questi ultimissimi anni con una profluvie sconvolgente di versi: esordio con Isole e vele (Forum, 1988), un poema "mirabilmente capace di coniugare l'impegno conoscitivo più serio con una ricca vena felicemente abbandonata di canto" (Vittorio Vettori). Ma è soprattutto con le opere successive (Pavana per una madre defunta [Veniero Scarselli, Pavana per una madre defunta - Appunti per una storia naturale della morte, Nuova Compagnia editrice, 1990. "Un libro di poesia sconvolgente fondato sopra una sconsolata concezione della realtà che deriva da un remoti) e sicuro travaglio di meditazione" (Mario Sansone).], Torbidi amorosi labirinti [Veniero Scarselli, Torbidi, amorosi labirinti, Nuova Compagnia editrice, 1991 - Romanzo lirico "Un viaggio ossessivo in un tragico tunnel che non finisce mai e che si chiama corpo, visceri, sesso ... e dove ciò che stupisce nell'alluvionale abbondanza è la tenuta di tutti i singoli momenti, l'arco della tensione" (Luigi Baldacci). Veniero Scarselli, Priaposodomomachia, Nuova Compagnia editrice. 1992.] e l'ultima: "Priaposodomomachia4) che questo possente artiere della poesia va sostenendo "come qualunque soggetto, anche il più sgradevole o abbietto, possa essere suscettibile di dignitosa investigazione e trasfigurazione poetica, quando si ponga l'investigazione del vero come lo scopo principale della poesia e la trasfigurazione poetica come la liberatoria venuta alla luce, attraverso il linguaggio delle immagini, di relazioni profonde e nascoste fra le cose della realtà che ci circonda o che è in noi". Il contenuto di questo Priaposodomomachia (XXXVIII pagine, meno di mille versi), "sacra rappresentazione" nell'intenzione dell'autore (o meglio "infame operina erotico-maniacal-ascetica" come l'ha definita nella copia a me dedicata) è così presentata nel prologo:
Nella prefazione Patrizia Adami Rook propone una interpretazione in chiave psicanalitica di questa "fatica di nascere del guerriero". Partendo dal presupposto che si tratti di un sogno o di un incubo e che sia necessario interpretarlo "onde liberarsi dell'orrore della forma sulla quale – diceva Freud – non bisogna fissare l'attenzione", vede in questa "sacra rappresentazione" un mito, il mito dell'Eroe in guerra contro il male e ne volge il significato pregnante alla "lotta che ogni figlio maschio deve intraprendere contro la propria madre per differenziarsi dal suo essere femminile e affermarsi nel segno opposto al suo". Si può immaginare, secondo la Prefatrice, che il maschio, qui come sempre, debba fare i conti "con l'immagine di quella che Neumann chiamò "la Grande Madre terrifica perennemente capace di sedurre e poi di evirare i suoi giovani molteplici innocenti amanti, come la Niobe di questo poema, piena d'angelico languore ma anche di maligna sapienza, pronta a trarre in inganno i poveri priapi..." Il Poeta, in questo suo poemetto, rappresenterebbe dunque quelle voglie, quelle brame di voluttà inconfessabili che possono insinuarsi furtive nella mente ed esaltarsi, dilatarsi fino ad invadere tutta la nostra visione; descriverebbe quei pensieri che vorrebbe rimuovere e invece "li chiamerà finalmente per nome laide capre biforcute e botole rigurgitanti di sordidi intestini; e scoprirà dove il Male veniva nascosto....". Certo il Poeta ha voluto rappresentare la lotta impari dell'Eroe contro il Male e la sua sconfitta, riappropriandosi dei fatti dell'esistere "oltre ogni ritegno e oltre ogni censura"; ed ha chiamato "scherzo drammatico" dagli intenti non del tutto ludici il suo lavoro di introspezione spietata e impudica. Ma al di là delle interpretazioni critiche a tema, sempre in pericolo tra verità e fantasia, seguendo il filo di svolgimento del poemetto vorremmo evidenziare quello che ci sembra il motivo di fondo: la volontà di raffigurare l'aspetto laido e brutale della natura umana quasi in contrapposizione con la limpida ed edificante ispirazione di gran parte della poesia d'ogni tempo. C'è, nello Scarselli, la volontà palese di mettere allo scoperto con compiaciuta evidenza la parte bestiale, il sottofondo nascosto di questa "bella spoglia mortale ... dal Male oscenamente masticata e abbandonata nella polvere come un turpe escremento senz'anima". Forse, se vogliamo cercare un edificante valore catartico, l'Autore appare tutto volto a trovare "una briciola almeno d'amore in cui deporre il minuscolo seme della storia". Dell'amore, della donna, della "specie di uccelli celesti ... che di ramo in ramo discende a nutrire (i viventi) col miele di tenerezze e ad adornarli di puri pensieri" scopre, per contrapposizione negativa, in "quel nobile involucro carneo..." i celati, "terribili succhi digestivi e lugubri tubi ricolmi delle materie più infami". Mirabili, di una partecipazione amatoria appassionata, le pagine dedicate ai "misteri corporali", al godimento estasiato" di quel bel sesso" ..., di "quei celesti luoghi di gaudio", come s'addice a un maestro amatore che penetrava "con la forza ardimentosa della fede fin dentro ... là dove le trombe dell'estasi prorompevano nel trionfo della fecondazione". In quel tripudio dei sensi mai, tuttavia, era stato sfiorato da desideri di tristi fornicazioni contro natura, finché venne "il giorno infame" della "arcana libidine", (che) "aprì una crepa nel piccolo io animalesco, "il Male che s'era incastrato nell'esofago infelice del pene". Tentazione, orribile pulsione verso insane, lascive impudicizie contro natura. Rivolta, ripudio, ribrezzo in lui puro, nutrito solo d'amore angelicato; ma poi, quando credevasi salvo, attratto, "poverissimo naufrago d'Atlantide ... nel cratere dell'Ano del mondo per sottostare alle voglie del Demonio". La laida malattia che l'aveva pervaso non poteva essere guarita se non uccidendo, trapassando quel corpo che orribile ormai appariva quasi odiata trafitta ingannevole farfalla. L'eroico priapo che tanto aveva osato cadde mozzato, giusto tributo per la propria disperata redenzione. "Ma ancora giusti ineludibili tormenti avrebbe dovuto sopportare prima che si dissolvessero alla luce della vera conoscenza "le ultime croste di peccato...". "Breve, fragile forma di vita larvale strisciante tra le rocce", atterrito tuttavia continuamente dalla maschera di Niobe mutante "ad ogni istante sembianza". Lunga, lunga la redenzione dalla colpa, dal peccato, lontana era la meta fintanto che "l'anima" non era libera "dalla prigione della mente corporale". Quando già la meta appariva vicina, "la Bestia mai sazia..., lo stesso corpulento Male (che) in carne ed ossa ... non aveva mai mollato la sua preda", tornò vorace, arrogante, ad abbracciarlo, a ghermirlo. Accadde allora che il suo corpo, diventato anch'esso infame ammasso animalesco, non fece alcun passo per fuggire verso le stelle della luce di salvezza; finché lui stesso, "con un colpo terribile della spada", dovette "mozzare, per separarli, il cordone ombelicale che tratteneva l'anima attaccata al corpiciattolo ancor vivo ma perduto, ormai quasi masticato dai diavoli", mentre varcava stridendo "come un maiale scannato" la "soglia infernale per scomparire nel Culo del Mondo". Così termina la "sacra rappresentazione", sacra "perché è sacro tutto ciò che doveva restare nascosto nel momento ín cui invece riesce a rivelarsi", rappresentazione dell'Eroe in lotta contro il Male, del Corpo in lotta con l'Anima, dello Spirito in lotta con la Materia, della volontà buona in lotta con la libidine perversa. Termina con la sconfitta dell'Eroe e la vittoria del Mostro: l'anima, dopo la terribile avventura della vita, essa sola si salva, mentre il corpo va ad ingrassare il Mostro, la Bestia della concupiscenza, del Male. È la storia dell'anima, della parte spirituale di noi in lotta con la materia che ci trascina, ingorda, al peccato, alla colpa, attraverso gli allettamenti delicati e avvolgenti dà sensi? E una parabola che ci insegna a non lasciarci sedurre dai piaceri, sia pure leciti e dolci, per non scivolare involontariamente verso il peccato più turpe? E l'avventura dell'Uomo in lotta con la Materia e da essa travolto e assorbito, ingoiato nel suo ventre infernale? Ed è ancora una volta la Donna, la Femmina, lo strumento del demonio a sedurre l'uomo debole e fragile e a condurlo alla perdizione? La Priaposodomomachia di Veniero Scarselli è tutto questo ed altro ancora. Ma sogliamo proprio trovarvi l'intento didascalico, la denuncia di un uomo che ha conosciuto il Male e la Sofferenza e vuole farsi araldo presso gli altri uomini col suono della tutta segnalante i pericoli del Mondo per distoglierli dalla seduzione della carne? lo non credo che ci si debba limitare a ricercare (ma è pur legittimo) il senso parenetico della costruzione. Crediamo piuttosto che non tanto si tratti d'un testo d'ammaestramento, di "non-poesia" secondo la categoria crociana, ma di un testo di poesia. Troppo viva è la partecipazione emotiva, troppo palpitante d'eroico furore, troppo turgido il linguaggio, perché l'intenzione nascosta del Poeta sia solo di ammaestrare. Egli si abbandona alla sua vena lasciandosi trascinare dal pensiero in evoluzione, seguendo con trasporto emotivo le immagini che sgorgano felicemente spontanee dalla sua mente, non cercando i termini del linguaggio ma trascrivendo in parole l'onda sonora dell'immaginazione. No, non c'è intento parenetico; c'è sofferta traslazione d'un pensiero, di un contenuto vissuto "dentro" che trova nel poemetto la sua espressione. Di fronte a qualche pagina verrebbe voglia di ritrarsi inorriditi, ma di questa nostra pruderie ci sarebbe da parlare a lungo (o da sorridere). Che poi l'ossessione "materica" che ribolle al fondo (ma non tanto al fondo) della poesia dello Scarselli valga a sommuovere la grigia monotonia della tradizione lirica, o meglio certa banalità di benpensanti, è argomento di discussione. Un critico (Fabrizio Dall'Oglio) ha scritto che le composizioni di questo Poeta sono da annoverarsi tra le cose più importanti di questi ultimi anni; un altro (Enrico bagnato) ha auspicato che finalmente l'establishement letterario si accorga di questo straordinario poeta. Basti, per ora_ la testimonianza della nostra ammirazione, pur nell'incapacità di un'adesione che trova non deboli resistenze nell'educazione repressiva ricevuta. |
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