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La definizione "poema metafisico in 43 tasse" usata come sottotitolo di un titolo, a dir poco, stravagante eppur denso di fascinoso mistero; una citazione in anteprima, tratta nientemeno che da Giordano Bruno; tre terzine dantesche del XXXIII canto, ultimo del Paradiso e dell'intero poema, ci immettono subito in una atmosfera classica e romantica al tempo stesso; quasi tardo-gotica. Uso l'espressione "tardo-gotica" non in senso spregiativo (absit iniuria verbis!) bensì per la intensa e calda "religio" che pervade il poemetto, quasi un moderno "itinerarium mentis in Deum". Anche il termine "religio" è parte integrante della medesima atmosfera. Trasportato di peso dalla lingua latina ha tutt'altra pregnanza del vocabolo italiano "religione", affatto epidermico e frettoloso. La "religio" latina si carica di significati molteplici e profondi che solleticano l'inconscio e il subconscio, stimolano la consapevolezza, si proiettano nel metafisico, precipitano in abissi inquietanti e temibili. Ma è proprio il fascino di questa conturbante atmosfera che (al pari del giovane Adso nel Nome della rosa) ci incuriosisce, ci alletta a proseguire, ad approfondire, ad indagare su questo arcano "straordinario".

Vi si scopre la vita con tutto il negativo e il positivo, tra veglia e sonno e sogni e ridestarsi "di soprassalto". Perché di soprassalto? "Perché il silenzio si era fatto di marmo" dice l'Autore: il pendolo cioè smette inspiegabilmente di scandire il tempo. E la frattura tra Tempo e Atempo diventa stridente insopportabile inevitabile. Eccolo "straordinario accaduto". Alla morte del tempo risplende la morte dell'io. "La marcia sorda del tempo | aveva forse cessato per sempre | di macinare il suo grano" (p. 38). Ma "lo straordinario accaduto" continua a intrigare in questa notte dei misteri, poiché l'umanità scopre che esiste ancora un Orologio, il "vero Orologio", l'Orologio dell'eternità, quello che "aveva vinto il Chaos | e domato la bestia del Tempo".

La speranza riaffiora, la fede nella "sovrumana Intelligenza meccanica" accende nuovi aneliti di vita. È la vita dell'Eternità, dell'Infinito, dentro la quale si diventa ingranaggi di una nuova forma di esistere fra "dolcezza di suoni celestiali | e armoniose geometrie dello spirito", ma anche frabrutture di ingranaggi mostruosi, negati ai nuovi arrivati a meno di non farsi astuti e di scivolare fino ad allettanti punti di attrazione come avviene per i mortali a proposito di taluni irresistibili richiami sessuali. E solo a questo punto il fortunato si accorge di essere stato avvinto dal "grande potente Ermafrodito" "con tutto il mare di spazi dell'universo", di andare incontro "vertiginosamente alla Gran Luce sconosciuta".

Siamo in presenza di un novello viaggio dantesco per l'ammissione della visione di Dio, viaggio ovviamente fuori tempo e fuori spazio, giunti tuttavia alla fine del quale il repentino e brusco ritorno nel tempo fa sorgere il sospetto che, tutto sommato, Tempo e Atempo siano le due facce della medesima medaglia, che il Tempo sia nella stessa Eternità, della quale il vivente non si rende conto, perché soggetto a metempsicosi da una forma di vita all'altra di una sequela ininterrotta e infinita.

A proposito del medesimo concetto (chiedo venia se cito me stessa, ma lo ritengo quasi d'obbligo come il lettore stesso verificherà) scrivevo su una rivista culturale, datata gennaio-febbraio '91, decrittando il finale di Insciallà di Oriana Fallaci: "In tanto caos di algebre e trigonometrie impazzite, convogliate verso una sorta di gioco al massacro, noi, (pluralis modestiae) inguaribili adoratori di sogni, di nuvole, di chimere, all'idea di vivere frantumati in molecole di rame, zinco, piombo zolfo, fosforo, azoto, potassio, eccetera eccetera, distribuiti in questo o quell'utensile, in questo o quel flacone, preferiamo la speranza-certezza di un Cristo risorto e carduccianamente "terminante ai suoi cieli" (fine della citazione).

Ma la conclusione della Fallaci era una conclusione atea. Qui per fortuna la conclusione è cristianamente eternale: è la conclusione di un Io senza né spazio né tempo e di una mente immortale che si spera di poter inserire "in un corpo elettronico perfetto" (p. 72) che dia vita, a sua volta, a "piccole imitazioni elettroniche | della pura Ragione Divina".

A questo punto il patto con Dio-Creatore si ricompone. E si conclude nella prefazione di una circolarità che persuade ed esalta simultaneamente. Il verso di Veniero Scarselli è solidamente classico, senza nulla negare tuttavia a un linguaggio poetico competitivamente moderno.

Recensione
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