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I labirinti dell'essere nella poesia di Veniero Scarselli
Veniero Scarselli plasma questi temi con straordinaria sapienza; come quella di un maestro del ferrobattuto, che attraverso i colpi di martello della sua scura incudine, torce, allunga, spiana, flette il ferro incandescente: giacchè incandescenti sono i contenuti della sua poesia, che solo in questo stato possono essere lavorati, analizzati, esplorati. E' il motivo per cui, dopo una prima lettura, ci si accorge di avere le mani bruciate. Io stesso ancora non sapevo da Torbidi amorosi labirinti, p.20 Lo stile dello Scarselli trae la sua origine dall'esigenza – che avvertì anche Montale in Ossi di seppia, seppur con esiti contrapposti [Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1974] – di torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza, alla lingua poetica degli ultimi decenni, sempre più rifugiata in un asettico minimalismo retorico e semantico. Ed egli parte per una rischiosa avventura solitaria, spinto soltanto dalla smaniosa volontà di dare alla poesia nuovi sussulti, nuovi stimoli, nuovi contenuti; poiché solo una fede feroce nella poesia, intesa come mezzo principe che l'uomo ha a disposizione per veicolare i suoi pensieri, le sue riflessioni, le sue rappresentazioni del mondo, può spingere un uomo a tentare questa ardua impresa. Scarselli, infatti, reagisce con forza contro l'invalsa opinione che la poesia serva ormai solo a rappresentare piccoli drammi intimistici, emozioni private che inesorabilmente la conducono verso l'aridità più completa. "Spesso il pubblico vive infatti di questa opinione: ecco un paesaggio di brughiera o un tramonto, ed ecco lì un giovanotto o una signorina, l'umore è malinconico, e allora nasce una poesia. Nossignori, così non nasce nessuna poesia. Una poesia, intanto, nasce assai raramente - una poesia viene fatta. Se dall'insieme delle rime sottraete tutto ciò che riguarda l'umore, quello che rimane, se pure rimane ancora qualcosa, ecco, questo è forse una poesia". Queste parole di Gottfried Benn [Gottfried Benn, Pietra, verso, flauto, Adelphi, Milano 1990] servono proprio ad evidenziare la peculiarità del fare poesia in Veniero Scarselli, che non è mai attesa invocata di un tramonto, dunque attesa di un'ispirazione. No. Per Veniero Scarselli un poeta deve essere prima di tutto un grande realista; deve inoltre rimanere sempre incollato a tutte le diverse realtà, per poter così essere in grado di rappresentarle attraverso una particolare forma poetica. E la forma poetica che Scarselli predilige e da sempre adopra è quella del poema o romanzo lirico, che non è mai una continua successione di liriche tra di loro distanti, ma che è invece un insieme di lasse e di strofe tra di loro concatenate e indissolubili. Scarselli, va ribadito, non cerca di essere attraente, ammiccante per ottenere a tutti i costi il consenso del lettore, giammai! Egli vuole invece " tendere i cervelli e stimolarli, aprirli a forza, irrorarli di sangue e renderli creativi" [Ibidem. p. 32]. La poesia di Scarselli esplora continuamente dentro la natura umana alla ricerca di una possibile verità; e una delle prime verità scoperte e subito accettate è che l'uomo, per avvicinarsi alle sorgenti cristalline della Conoscenza, deve sottrarsi alla catena incessante del divenire. Staccarsi dal divenire, infatti, significa abbandonare ogni finalismo che l'evoluzione, attraverso il corpo, impone a tutti gli esseri del creato. L'uomo è l'unico essere che compiendo un processo di espiazione, da novello Prometeo, può spezzare le maglie di quella terribile catena e intravedere la luce della salvezza. Salvezza meramente illusoria beninteso, finché si rimane avviluppati nelle spire della carne, della passione: Blasfema eresia Ibidem, p. 103 Il romanzo lirico di Scarselli Torbidi amorosi labirinti (Nuova Compagnia Editrice, Forlì, 1991) rappresenta un vero e proprio viaggio iniziatico nei meandri più cupi e più foschi della sessualità, quindi del desiderio. E perpetuando la migliore tradizione epico-romanzesca, Scarselli ci rivela i meccanismi perversi e ingannatori che sottomettono l'Io nelle temibili insidie del "desiderio mimetico", costringendolo ad una estenuante lotta per l'affermazione del suo Essere. Il libro narra la storia "rievocata da un malato sul suo letto di morte: l'esplosione piena e innocente di un vero amore, certo vissuto in un delirio anche di sesso (ma come si vivono altrimenti gli amori tra gli esseri sani e vitali?), poi la sazietà e la successiva impotenza sessuale dei maschi; ma lui la sua compagna la ama e vuole salvare il rapporto e allora ecco tutte le sue elucubrazioni e gli espedienti per vincere gli stimoli estranei all'amore e alla coppia questa ch'egli sente come un'onta e una sconfitta; ecco il disperato ricorso alle `ammucchiate', non per vizio (così almeno crede) ma per fede in un'apertura della coppia, in una dilatazione dei confini dell'amore, anche attraverso il sesso, verso una fratellanza universale; ciò che non aveva previsto era che lo sconvolgimento di quei binari ancestrali, certo limitanti ma su cui si era felicemente edificata la specie nei milioni di anni, avrebbe invece accelerato il definitivo sgretolarsi del rapporto. Ecco la fuga e la rivalsa della donna, l'angoscia per il suo irreversibile abbandono, la lunga depressione. Infine l'opera taumaturgica del tempo porta la quiete nei sensi e nello spirito e fa rinascere un uomo nuovo, ricco di mistiche aspirazioni; ma ormai il contagio manifesto e terribile di un'oscura malattia sessuale (dati i tempi diciamo pure che sia Aids) è la nemesi della natura che si rivolta, per espellerla, contro una vita deviante e perciò stesso votata alla morte, un ramo secco dell'evoluzione che la Vita amputa impietosamente da se stessa" [Brano tratto da un articolo dell'autore stesso, pubblicato sul n. 4 dell'ottobre-dicembre 1991 della rivista trimestrale di letteratura Clandestino, della Nuova Compagnia Editrice, Forlì]. Questo dei Torbidi amorosi labirinti è dunque un Io che, dapprima irretito ne "lo stupro ancestrale in cui è vano | dibattersi, inflitto dalla femmina" (p. 14), avvicina "temibili rivali | che sempre gl'invidiarono la preda" (p. 55), per tentare di divenire il deus ex machina di una "triste commedia" (p. 52) dove i protagonisti, malgré lui, vicendevolmente si annichiliscono. Eppure l'Io narrante credette "nel gran rogo d'amore | che avrebbe affratellato tutti gli uomini" (p. 56), anche se presto s'accorge che questo progetto non è realizzabile. Era dunque, e qui ancora lo grido Ibidem, p. 58 E' l'io, "questo nido di rancori e di guerre | e insopprimibile sofferenza dell'essere" (p.61) a determinare quindi l'abisso che divide tra loro gli uomini. Oh, se solo si potesse sempre aver sentore di ciò che incombe sulla carne; allora, forse, questa coscienza potrebbe distruggere i nostri desideri! Infatti, soltanto se ci si libera dalla schiavitù dell'Io si potrà smettere di desiderare, perché, come scrive Cioran, "fino a che si desidera, si vive nell'assoggettamento, si è consegnati al mondo; non appena si smette di desiderare, si accumulano i privilegi di un oggetto e di un dio: non si dipende più da nessuno". Per questo l'eroe scarselliano, fintanto che rimane avviluppato nelle spire della carne, della passione, fallisce il suo tentativo d'attingere| all'evangelico amore universale. Di più: l'amore per quei fratelli chiamati in soccorso alla sua stanca sessualità si trasforma implacabilmente in odio "per quelle torve creature |... che rubano o disperdono | prezioso cibo dalla bocca d'affamato" (p.73). L'anelito di dividere l'oggetto desiderato, si rivela altresì un misero fallimento, ancor più quando il protagonista cerca di riprendere ciò che era suo, ossia "quel corpo di triste affogata | abbandonato da Dio a gallegiare | sulla piena del fiume del mondo" (p. 74). Poco sopra abbiamo accennato al desiderio mimetico. Aggiungiamo: desiderio mimetico triangolare, rifacendoci fedelmente all'interpretazione che René Girard dà di questo fenomeno [René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965]. In altri termini, un soggetto non desidera spontaneamente un oggetto, ma desidera ciò che un modello-mediatore direttamente o indirettamente gli indica come desiderabile dall'alto del prestigio che riveste nei suoi confronti (il mediatore infatti possiede, agli occhi del soggetto, l'essere di cui egli si sente privo). Seguendo questa via interpretativa, possiamo affermare che l'Io narrante dei Labirinti sembra offrire gratuitamente la donna amata ai presunti fratelli senza nome (in realtà mediatori) come un fedele offrirebbe un sacricifio a una divinità. Ma mentre il fedele offre un oggetto perché il dio ne goda, l'eroe scarselliano offre l'oggetto (la donna amata) perché il dio ("i temibili rivali") non ne goda. Ovvero – proseguendo con Girard – "egli spinge la donna amata verso il mediatore perché questi la desideri ed egli possa poi trionfare del desiderio rivale. Non è nel mediatore che desidera, ma contro di lui. L'unico oggetto che l'eroe desidera è quello con cui deluderà il mediatore; in fondo, gli interessa soltanto una vittoria decisiva sul mediatore insolente" [Ibidem, p. 46]. Il meccanismo semplice e automatico Ibidem, p. 71 Ma contrariamente alle sue aspettative, i ghiotti priapi, i fieri maschi non mollano la presa, non abbandonano il bell'oggetto dato in prestito; al contrario, lo desiderano e lo posseggono sempre più! AI nostro eroe riesce soltanto una parte del suo progetto iniziale che consisteva nel far desiderare il suo oggetto dai suoi mediatori-rivali, in modo che costoro attraverso il loro desiderio sanzionassero l'eccellenza della sua scelta sessuale. Purtroppo viene meno lo scopo principale, ossia una vittoria decisiva sulle sozze iene e sugli sciacalli affamati, ai quali egli non riesce a strappare dalle mani la reliquia prima fedelmente consegnatagli; ciò avviene solamente quando loro stessi da dèi son divenuti i dèmoni che hanno fatto dell'amata la cloaca del male (p. 88). Ma solo adesso egli s'accorge del tremendo errore; solo adesso comincia ad avere "pietà per quella figlia di Dio, | quella bambina, quell'essere infelice" (Ib.), per quell'essere cioè completamente calpestato dalle proprie grevi trame. Non rimane altra strada che nascondersi e fuggire da se stesso, per convivere coi propri, terribili fantasmi che popolano le notti (p. 91), per espiare le proprie colpe, per attenuare mano a mano la propria volontà. Tuttavia, quando sembra d'intravedere e presagire la pace nella "pioggia sospirata d'emozioni | che era essere Uomo Asessuato" (p. 95), piomba come un macigno un castigo ritenuto divino, ma in realtà profondamente radicato nelle colpe del proprio passato. Ed ecco che nell'impari lotta contro il Maligno, che rivela la realtà illusoria d'ogni Io, l'eroe scarselliano acquista la consapevolezza che solo nell'abbraccio sincero d'Amore si può far fronte al dolore del mondo, si può raggiungere l'essenza dell'Essere. (p. 111). Consapevolmente convinto della necessaria unità di mente e natura, Scarselli dedica le ultime pagine del libro a sondare l'impenetrabile destino dell'uomo, come unico animale capace allo stesso tempo di pensare l'Essere e la Morte. Mi hanno detto che quando è il momento Ibidem, p. 114 Veniero Scarselli dunque non vuole limitare la sua poesia ad astratte e vuote esperienze linguistiche: per lui è necessario dire e pensare la realtà. Motivo per cui diventa egli stesso, ai nostri occhi, un poeta necessario .Necessario perché è tra i pochi, rari poeti che permette di sperare che la poesia ancora esista e vada avanti, e non esaurisca la sua parabola nel deserto semantico degli esperimenti linguistici.Perché in questo mondo la sete di poesia è ancora viva e forte, e non può e non vuole essere soddisfatta rivolgendosi esclusivamente agli altrettanti necessari Maestri del passato. Per ciò non possiamo non ringraziare Venero Scarselli di aver scalato la vetta di "quest'isola esausta" che è "l'ultmo gradino da salire | per liberarsi del peso del corpo" e sfidare "l'impenetrabile universo", tentando di carpirne i misteri e gli enigmi "con la violenza della ragione" [V. Scarselli, Eretiche grida, Nce, Forlì 1993.]. |
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