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Veniero Scarselli pubblicò
nel 1988 il suo primo libro di versi, Isole e vele (romanzo lirico), e già dal
sottotitolo si intendeva la novità che esso voleva costituire. Il libro si
distribuisce in capitoli di viaggio ulissiaco ("interminabile veglia di stelle
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sul mio veliero | quando ogni sonno di uomo a bordo | era ignaro | e gemeva
l'albero | e lo sforzo di vela | e io solo chiuso | nella veloce corsa della
prora | sapevo | che da sempre ci attendono | mari abitati da uccelli |
irraggiungibili isole" - p. 10), che narrano in macro-sistemi di allusività, a
volte anche analogici, la storia quotidiana dell'esistenza, del soffrire nella
solitudine di isole sconosciute, perseguitati dalla paura e dal terrore di arpie
immense di cui spesso il poeta intravvede l'ombra Il tema dominante è il tempo e
l'uscita da questo alla ricerca di un silenzio, che a volte acquista toni di
religiosità ("ma ora che tutto è avvenuto | è necessario | imparare la solitudine
| come un male dell'anima | un attributo biologico | anche se talvolta il
silenzio | è così assoluto" - p. 47).
Peculiare la rapacità del verso di Scarselli, che quando pare
aver soltanto descritto il suo Ulisse, ha invece già intrapreso un percorso
simbolico in mezzo ai marasmi di ritmati e metrici commi. Similmente Torbidi
amorosi labirinti (Nce, 1991) è compatto, un unicum d'energia che rompe con la
tradizione allusiva, metaforica del dato lirico per dimostrarsi, dopo lungo
viaggio di narratio e di discorso, stilema quasi allegorico. Esso trascorre la
vita e le sue fasi all'interno di distensioni liriche predisposte a coinvolgere
in un'esperienza unica verso un centro di massa proteiforme. Interpretare queste
pagine non è operazione immediata. E più facile esserne trasportati, afferrando
le sorti dell'io lirico in tangibile successione. Sui panneggi di questo cursus
magmatico le figure traspaiono da un cosmo organico, carnivoro, trovando slancio
e scivolate da se stesse, ininterrottamente. Ciò che colpisce, ed anche
stupisce, è questa capacità di trasportare l'attenzione di chi legge sul dettato
logico discorsivo, comunque legato ad una variabilissima coacervatio di
mutazioni, di parole che si unificano attorno all'imperante direttrice di senso,
sesso, solitudine, totalitaria sull'immaginazione e la figurazione. Scarselli
cela nell'allegoria complessiva la sua memoria, la sua vita e il suo futuro
investendoli di una scorza apparentemente indistinta nello spessore, ma in
realtà disposta per fasi. In questo unicum di vita che si è fatta carne,
condanna e persecuzione, si racchiude un Eden senza riscatto dove prevale di un
comune sistema cartesiano l'ordinata orizzontale legata all'Eros e alla terra
che lo include. Perciò il viaggio che il poeta ha intrapreso è inchiesta di un
io in due persone alla ricerca della completezza erotica e materna alla quale il
poeta si sente legato. Via natural scemando, pur restando invischiato alla sua
primigenia natura, il soggetto narrante scopre nelle cose la sofferenza ed
inizia quella quasi psicanalitica divisio fra l'io maschile e
l'io femminile, infine in contrasto quando – in chiusura del libro – si scopre
che ad abbandonare la figura erotica maschile è la stessa figura materna, vista
però come cupa origine del mondo, superiore e quindi resistente al viaggio in
vita che il poeta descrive.
Le due ultime poesie, soprattutto, sono indicative di questa
chiave di lettura. Vi si denuncia un avvenuto distacco fra il magma primigenio,
la Madre, che ritorna ad essere inizio di grumo vivente, e "questo corpo
straordinario | che patisce senza lacrime l'attesa". Ma nel momento in cui ci si
accorge di questo, ci si ricorda della precedente preparazione all'avvento sulle
cose e sulla materia erogena della morte, che nella concezione di Scarselli è
rappresentata quale tangibile incomprensione della carne, umana impietosa
trasfigurazione che avanza e cresce così come il viaggio procede. La
consapevolezza della sua presenza, perciò, è preparata: è la crescita di un
altro, che pur appartiene alla persona, condividendo la stessa materia. Come la
Madre è distacco dovuto alla sofferenza, e comune all'umanità nella sua intera
consapevolezza di fine e di ritorno, di riapertura concentrica di un ciclo
chiuso, così la morte diventa indispensabile maieutica di una dottrina di carne
che entrambe le accomuna.
Si giunge a questa conclusione per via di lirico viaggio,
quasi amniotico nella contaminazione del poeta. Le "ondate che stritolano la
vita", avvolgenti e travolgenti quali vesti mentali del cursus che sgorga e
ingloba a mulinello il proprio materiale di composizione, costituiscono
"l'entità che ci spinge imperiosamente con la sua forza | nella terribile
latebra del mondo". Essa è l'abisso che si presenta e che ritorna, in armonia
con l'uso ritmico in legatura quasi continuata, a squarci, come la risacca. La
profusione nel verso a strofa delle coordinazioni diventa la variazione
all'assillo di lacunosi contrasti di sesso, appagamento, caduta, morte,
sacrificio. Si torna quindi a materializzare, ma illusoriamente, la certezza
dell'essere umano ("una bizzarria | soltanto ideata | ma mai realizzata,| con
tutte le finestre dei suoi sensi | guardanti in un buio cortile"). È lo strano
labirinto della carne che non aspetta salvezza "dal lungo tubo senza fine della
morte" e si fa vessillo di un erotico stradario cieco alla meta, fulcro di
meraviglia per una festa nell'isola di Cnosso.
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Recensione |
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