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Il dogma dell'indissolubilità del matrimonio è ancora carico di "suggestioni e non cambia ancora il modello dell'unione: ancora borghese, ancora vincolante; ancora la gelosia, il possesso dell' altro. Veniero Scarselli ne fa un "romanzo" in versi, senza metaforizzarlo per inibirlo. L'intento è moralistico, ma non è mai allegorico. Lo stile narrativo è quello del "viaggio", e la partenza avviene dalla "stazione" dell'attrazione fisica, che subito determina "turgide erezioni". Il segnale di avvio è sartriano: suppone un viaggiatore disancorato dall'universo, dall'umanità, dalla storia; l'amante è "passion inutile" e l'amata non è che "objet fascinant", stimolo sessuale originario. Il viaggio non porta soste ristorative, il "biglietto" è di sola andata. Questo vale per coloro che fanno assegnamento su un possibile ritorno alla coscienza. E' la straordinaria tensione, che caratterizza la silloge di Scarselli, e su questa tensione dobbiamo sintonizzarci per comprenderne lo sviluppo e quindi l'esito. Chi sale sul treno è chiamato ad obnubilare la ragione, a confermare la sua consapevolezza di infelicità (p.13). L'infelicità è nella genesi, nello "stupro ancestrale" che segna la nascita di ognuno, quel "dolce peso di ventre di madre" (p. 15) che comunque segna undestino di morte (p. 16).

Scarselli prorompe ora nel chiliasmo dell'amplesso amoroso ed eclissa tutte le metafisiche sull'amore: quella di 0llé-Laprune per il quale l'amore è "l'atto vitale per eccellenza" capace di penetrare nelle cose per trasformarle e si legittima e autentica nell'amore per Dio: quella di Blondel per il quale "non si conosce nulla se non si ama" o quella di Gabriel Marcel in cui l'amore si fa rivelazione della stessa esistenza, quando non è addirittura condizione originaria dell'eticità della persona, come in Max Scheler. Qui cade invece la penombra della pudicizia, l'attrazione sessuale prende il sopravvento e la donna si fa "ape regina", tarpa le "ali" al maschio, dell'amore cade ogni idealizzazione. E ancora la funzione procreatrice della sessualità, quel suo generare soggetti sessuati, creature-mostri: "...ragno | aggrappatosi ai peli e ai capezzoli | come un figlio deforme del Maligno" (p. 21). Ma nella Metafisica si rientra quando al principio del bene si sostituisce il principio del male; così è che "...bruciata ogni speranza di salvezza | rotti i ponti col mondo | I rassegnati colpevoli s'abbandonano | alle golose caverne senza ritorno..." di Mario Schiattone (p. 22). Dio non è che il "luogo" di un "lugubre trionfo" sulla natura e sugli esseri, un Dio "solo e chiuso nell'eterna | sua distante incorruttibile opera" (p. 24). Compiuta fino in fondo la dissacrazione, non rimane altro che "ingozzarsi" di sesso, l'essere trova furiosamente il suo destino nell'orgasmo (p. 27). Ma il pasto della carne si volge a sazietà e al grigiore della fine del desiderio, il che protrebbe preannunciare un ripensamento: invece la metamorfosi del desiderio cerca nuovi stimoli nell'orgia, per l'eclissi definitiva dell'anima. Orrenda e beffarda. meccanica biologia dei sensi che abbatte tutti i vincoli morali in virtù di una perversione.

Ma è proprio in quest' abisso che resta un ultimo aggancio per l'anima: trovare nel rapporto sessuale "un'affinità elettitiva" e "più nobili legami di spirito" che portino quegli esseri dimezzati a sentirsi una sola carne, una sola psiche, un solo spirito. Da qui ricostruire l'armonia perduta nell 'Eden, riconquistarla e trasmetterla, inondarne il mondo. Ma anche questa è un'utopia a rovescio, produce un'ulteriore sofisticazione del desiderio. La ragione si inerpica a trovare una tronfia filosofia dell'orgia e diventa "maestra" dell'impudicizia e della scelleratezza, giudice implacabile della gelosia, l'estirpatrice del possesso, della "proprietà privata". L'Ego si libera, il Superio è morto. Ma è morto anche l'amore (p. 71) e ogni sua "tenera memoria". Tutto è potentemente grottesco e irreale: "...mendicai | un po' d'amore da quel corpo vuoto"; ma "...ella con perfida perizia | si esibiva in narcisistiche finzioni | di orgasmi..." (pp. 79 e 80). Il confine del piacere è segnato definitivamente: nella devastazione dell'altro si scorge la propria devastazione. Si invoca il "perdono" per una donna che doveva essere, una volta, "figlia di Dio". L'angoscia kierkegaardiana subisce un rovesciamento: la consapevolezza della propria finitudine non è mai piena se non è un riflesso della finitudine dell'altro.

È una sconfitta definitiva, a cui segue il pianto lamentoso del compagno, nascosto in una caverna, incapace di vivere, di pensare. Si intravede una figura umile di madre, la quotidiana serenità della fanciullezza. a restituire qualche sussulto al fu Mattia Pascal reso ormai medico, a cui i cani forse, un giorno, torneranno a leccare le mani. Una storia come quella di Ulisse e di Prometeo, perchè ardita e disumana e raccoglie le emozioni che gli uomini placano nelle ideologie e nei programmi. Una proposta morale da leggere con sospetto, il sospetto di sempre.

Recensione
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