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Nell’accostarmi a questa decima fatica poetica dello scrittore siciliano, quasi d’istinto vi ho subito cercato le tracce di possibili modelli tematici o stilistici. Versi come quelli della lirica Scilia e Cariddi («né in cielo né in terra avverto | distante la casa | nell’arcipelago | più facilmente mi percepisco | frammento di cosmo») rivelano indubbiamente nella formazione letteraria di Zinna una meditata e profonda frequentazione della poesia di Ungaretti, particolarmente dell’Ungaretti de L’Allegria (quello, per l’appunto, che si riconosce « una docile fibra dell’universo » e vede nel non sentirsi « in armonia » il suo « supplizio »); allo stesso modo la nitida tensione figurativa e il registro sommessamente colloquiale di un testo come Gabbiani a Montesilvano richiamano il Saba di Uccelli e di Ultime cose, e nel vorticoso magma linguistico di testi come Poesie di linea e Gioco di fuoco alla Marina, in cui aulico e prosaico, antico e nuovo, sublime e quotidiano si fondono e si confondono, è possibile vedere un ritorno di certo sperimentalismo neoavanguardista. Giunto al termine della mia ricerca, comunque, ho dovuto riconoscere che, come è detto nella breve nota introduttiva, Lucio Zinna, pur avendo « colto i più vivi fermenti del secondo Novecento », rimane « difficilmente inquadrabile in scuole o correnti », in ragione di una « voce personalissima ».

Il titolo del primo segmento della silloge, La campana del coprifuoco, si riferisce alla segregazione domestica cui, nelle ore notturne, i palermitani sono costretti dal dilagare della criminalità. Ma chi, a questo punto, si aspettasse da Zinna versi impregnati di quel retorico e manierato impegno civile che oggi molti poeti ostentano verrebbe recisamente smentito. Le «fiaccolate - contro » e le proteste di massa, « generose e patetiche », altro non sono che «conclamati simposi »; per gli uomini, che « sotto la cenere del loro affaccendarsi cercano di nascondere il fuoco del loro sgomento », non esiste salvezza se non nella fuga, in cui potrebbero «riconoscere | fra nuove immagini insospettati frammenti | di un mondo preservato negli scrigni | dell’anima». La seconda sezione, Polaroid, è costituita da componimenti la cui genesi, per esplicita dichiarazione del poeta, è avvenuta in circostanze insolite e in modo estemporaneo. Si tratta perlopiù di pezzi di bravura che rivelano in Zinna un autentico virtuoso della parola e del verso. La terza sezione, che da il titolo all’intera raccolta, è tutta incentrata sulle metaforiche delimitazioni spaziali e mentali suggerite dal vocabolo “casarca”, ardito neologismo che unisce all’idea dell’arca, emblema della salvaguardia genetica e a un tempo del rinnovamento, quella della casa, luogo della stabilità e della protezione, che finisce però per divenire a sua volta « arca litica », da affiancare all’« arca lignea » di biblica memoria. L’equivocabilità del segno linguistico, il fagocitante vuoto della storia, il trascorrere impietoso del tempo, il desolato grigiore della vita quotidiana, la crudeltà e il cinismo della gente, imperanti a tal punto che « il bene non c’è scampo per chi lo insegna », non impediscono all’uomo di sperare rabbiosamente in un possibile riscatto, che risiede forse in una suprema e oltremondana coincidentia oppositorum, splendidamente simboleggiata, in un’atmosfera di trasognato surrealismo, dalle tessitrici che, « nella bianca stanza », « operano in armonia e sono opposte ».

Recensione
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