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Nelle edizioni La Centona, come supplemento al numero 22 della rivista “Arenaria”, è uscito, nel luglio ‘92, La Casarca, di Lucio Zinna, scrittore, critico e poeta tra i più attenti ai fermenti del nostro tempo, legato sicuramente a questa sua terra di Sicilia, ma non legato a gruppi culturali di potere ne a scuole di genere.
Nascono così la prima e l’ultima sezione del libro, “La campana del coprifuoco” e “La casarca”, che già preludono − nei titoli − a un dramma e ad una salvezza, al fuoco e all’acqua, elementi primordiali del dolore, ma anche della vita e dell’amore. Quella che Zinna canta è una «povera epopea», in cui − apparentemente − non resta che «un riassegnarsi albe contate a coattive | distanze nell’accettazione del giorno come viene. | Perché vivere è pure il sentirsi morire». Sotto la vicenda storica dell’isola, appena fatta intuire in squarci improvvisi, si muove la ricerca di una identità, che è la ricerca della parola, del farsi della poesia, come luce capace di ridare senso ai gesti, alle scelte, alle tradizioni, al vivere quotidiano in un mondo che − nonostante tutto − il poeta ama: «più facilmente mi percepisco | frammento di cosmo − tra Scilla | e Cariddi con un’arancina | e una birra». Il degrado consumistico-televisivo non è urlato; è appena suggerito, tuttavia con vigore, come uno dei tanti grandi mali di questa nostra epoca, dove l’uomo suona − spesso − come dissonante misura contro la bellezza della natura e della parola poetica, come appare in “Gabbiani a Montesilvano”: «Appena di un uomo | si delinea la dissonante presenza | spiccano un volo unico una bianchissima | macchia sull’orizzontale linea azzurra». E se di fronte al negativo, in un primo momento, il poeta sembra da “traboccante” che era, voler celarsi, non − dire, ritrarsi, «ma − vedi − non mi riverso più | n’abbucco si direbbe dalle mie parti», in un secondo momento, nella sezione finale del volumetto appunto, ecco invece il sogno, il suo «voler restare a galla, in attesa di un arcobaleno». Sul filo di una memoria d’infanzia recuperata, attraverso un linguaggio essenziale, ironico, intenso, che svaria in lunghezze e brevità di dettato a seconda del tono del discorso poetico, Zinna riafferma la propria volontà «di non correre a vanvera», in un tempo in cui «il giorno declina in rituali da coprifuoco»; riafferma con amarezza «questo fremente rassegnarsi | alla rassegnazione non voler tornare | indietro valersi di poco stringere | le forbici sentirsi vicino l’orizzonte». In mezzo a queste due sezioni, che sono legate dal tema della memoria e del recupero del proprio passato, ma anche da un senso di impegno civile non esibito, non sbandierato ne conclamato all’ultimo minuto, ma onesto e coerente nelle sue scelte, si pone la sezione “Polaroid” ove la misura dell’ironia si fa pungente, acre; sarcastico e amaro grido da una zona limbica tra il fuoco e l’acqua, contro la quieta e passiva accettazione della banalità contemporanea. Anche qui è spesso il discorso sulla parola a prevalere, in immagini rapide, secche incisive: «Lasciala in pace la poesia |… a volte si chiude | nel suo guscio tu pensi | t’abbia abbandonato |...non forzare la mano | non c’è verso». A dare unità al volumetto, che mostra capacità di registri stilistici lirici, ironici, drammatici, discorsivi, epigrammatici, è − dunque in fondo − la scelta di “restare” in Sicilia: «Io avevo scelto cupole moresche chiese barocche tra catoi esotici mercati vicoli di puttane», che è scelta di una poesia in quell’isola e anche per quell’isola: è − mi pare − la scelta di una amorosa fedeltà: «È chi parte | è tiranno come chi sempre ha logorato il sud» . Con questa fedeltà del poeta, credo, non possiamo non sentirci in consonanza, non possiamo, anche da un nord freddo e distante, non esprimere la nostra stima. |
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