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Uno smilzo volumetto di cinquantadue pagine e in esso contenuto il pensiero «maturo» di Lucio Zinna, un ripiegarsi su se stesso, un consuntivo della sua vita, una resa dei conti, tra amarezza e nostalgia, sorriso sornione e battuta arguta, ironia e tenerezza, rassegnazione e appagamento.

È sempre lo stesso Zinna dalla parola colta e raffinata impastata con un linguaggio quotidiano e supermoderno, lo Zinna delle citazioni e degli innesti francesi, dell’eloquio fluente e delle impennate improvvise; ma qui in particolare egli ha voluto riversare il suo tutto del momento in tre brevi sezioni che rappresentano in modo diverso il suo universo.

Una premessa esplicativa anticipa ogni versante lirico che già nel titolo rivela un preciso proposito. Così «La campana del coprifuoco» rappresenta il dentro, l’angoscia esistenziale dell’ora, il tumulto dei sentimenti, il fuoco sotto la cenere nel malessere dei nostri giorni; «Polaroid» è l’istantanea giocosa, l’immagine di un attimo, la parentesi che diverte (nel senso originario del termine); la «Casarca» infine è il compendio di una vita, è la memoria, è l’uomo stesso che chiama a raccolta i suoi semi e fattosi casa-arca cerca di non annegare, di raggiunge-re eretto la riva portando con sé il succo delle sue esperienze, l’essenza del suo esistere.

Si tratta di una simbologia sottile e pregnante che alterna nel verso un tono alto e quasi oscuro a un discorso colloquiale e disteso dove il brillio ironico s’impone sempre, smorzando la pena, ridimensionando ogni tensione drammatica. Ma la pena rimane in sottofondo e aleggia soprattutto nella prima parte, in quella «campana del coprifuoco» dove la natura umana viene a più riprese scandagliata e i perché della vita hanno magre risposte.

Ritornano il tema del viaggio, della fuga, del distacco, lo smarrimento del vivere sospesi, la resurrezione del ritorno.

Come nelle precedenti raccolte. Le reminiscenze classiche fanno da supporto alle inquietudini dell’ora, mentre l’uomo, pur nuovo Teseo, può perdere il filo d’Arianna, può invischiarsi in false imprese, può infine celare nelle sue viscere lo stesso Minotauro.

E così la splendida icona bianco-oro dei lucenti gabbiani sulla rena può dissolversi all’improvviso comparire dell’uomo, elemento di disturbo nella perfezione della natura. In questo modo l’uomo procede nella prima sezione del libro, con tanta amarezza rappresentato, l’uomo Zinna dalle impennate ardite che si tuffa nel mondo e si ritrae, contempla e deride, ascolta e denuncia, rivive le parole e i silenzi, i malintesi e le «fantasime», le sue grandi storie-fiabe dissolte nel nulla, il desiderio di fuga al Nord e il rientro della «nostalgia» e la calda domus nel suo Sud. E infine il degrado della sua isola, «un nemico invisibile ora si faceva più del potere /arrogante...», il coprifuoco in ogni caso.

E siamo alla parentesi di «Polaroid». Tra il primo e il terzo momento una pausa, un lieve divertissement, per prendere fiato, per sciogliere la tensione, per smitizzare la severità del pensiero. Ed ecco come parabola che soccorre le agili strofe su personaggi storici, eventi, presenze, divagazioni impertinenti. Lo scherzo è palese, il linguaggio è sciolto, l’impegno è addormentato, tuttavia ogni testo rinserra una sua verità, una sua dignità di esistere.

Che la «Casarca» eleva subito sul piano del tono alto anche se inizia in sordina con quel ricordo infantile di prima media quando il latino frastornava i ragazzi con i suoi primi tradimenti. Ma poi è un crescendo, in una sempre più tesa sintesi della propria vita, della vita del poeta che ormai raccoglie tutti i frammenti del suo passato, che nella fase delle rimembranze si accorge d’essere al di là, di non poter più permettersi delle «follie», d’essere una «persona distinta», «vinto e vincitore».

E così in questa fase discendente, che sempre nell’ironia trova il suo controcanto, in «...questo fremente rassegnarsi /alla rassegnazione...» il poeta ci offre ancora una coraggiosa prova di sé mentre il Golgotha purtroppo insegna che il bene non si perdona, mentre le mitiche tessitrici continuano imperterrite la loro fatale opera, mentre si deve invocare il Signore per non dimenticare che ognuno è soltanto nelle proprie mani.

Con questo dolente messaggio Lucio Zinna si accomiata, ma già chiudendo il libro si sente aleggiare intorno il suo sorriso ironico. Per pensare davvero alla decadenza c’è tempo.

Recensione
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