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Casarca, patria interiore
Da una raccolta di liriche
all’altra, il percorso ideale di Lucio Zinna si fa più puntuale e concreto,
anche se sempre ugualmente esemplare nel modo e nei toni e negli umori del suo
poetare. Se in Abbandonare Troia egli aveva auspicato per sé la
condizione di nuovo Enea alla ricerca di una nuova patria interiore, dopo
che volgarità e tradimento avevano distrutto la città, metafora del mondo della
cultura e dei suoi valori; se in Bonsai egli era partito alla ricerca di
un universo di simboli e significati esistenziali da riproporre oltre la
presuntuosa miseria del bonsai (persone e cose rimpicciolite dalla meschinità
dei loro desideri e aspirazioni), in Casarca il poeta chiarisce i
significati del suo esilio, la sua più vera ricerca di umanità.
L’esilio di Lucio Zinna
non è infatti rapportato con i luoghi, con la patria, come lo fu pure per il
mitico Enea; che anzi, per lui, il professionista o l’uomo di cultura che si
allontana dalla sua terra per servire alle proprie ambizioni, si rende
responsabile e complice di chi vuole povero e sfruttato il Sud, di chi governa
(o sgoverna) per mantenere arretrata la nostra isola.
Dice infatti il poeta con
forte icasticità che: «chi parte | è tiranno come chi | sempre ha logorato il
Sud».
Zinna ha fatto dunque del
suo “restare”, una questione di principio, il punto d’onore di chi veramente
lotta (e non a parole) per il riscatto della propria terra. Ma il poeta avverte
anche, e canta, la fatica dei viaggi a cui lo costringe la perifericità della
sua residenza, il suo pendolarismo fra Scilla e Cariddi, la “pena indicibile”
delle continue partenze, le brevi assenze, i sodalizi culturali costruiti a
fatica e continuamente interrotti dalla distanza, affidati spesso “per frangere
l’esilio” ai fili del telefono: «Ad ali di gabbiano s’affidano intanto mute
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parole a fili di telefono s’appendono | a frangere un esilio e un altro ancora
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a circuito chiuso… | Perché vivere è pure il sentirsi morire | del
distacco ed è resurrezione ogni ritorno» pp, 14-15).
L’eroismo della condizione
sociale ed esistenziale che rende saporosa la prima raccolta (La campana del
coprifuoco), si vena di aristocratico distacco nelle liriche della serie
Polaroid: frammenti di una personalità che s’arma di una tremenda ironia,
che dovrebbe essere capace di
abbattere imperi o di rendere
più vivibile, se non la vita sociale, almeno quella individuale. Ma
l’aceto “divino” dell’ironia
di Zinna non è stemperato “in ampolle rococò”; è forte e generoso come la terra
siciliana e difficilmente può risultare gradito a Modena o a Milano dove si
praticano le mezze misure in tutto, tranne che nelle tangenti. Che importa? Al
poeta l’ironia basta per se stessa, perché, con essa, ha imparato a condire “non
solo le insalate” ma tutte le ore della sua giornata, la sua vita, il suo
rapporto con gli altri e persino con quella “Repubblica dell’Alfabeto” che già
nell’Ottocento Vincenzo Riccardi di Lantosca deftniva “cialtrona” e
opportunista.
L’ironia trova applicazione
non solo nel presente e per il presente, ma persino per rivisitare il
passato, come nelle ministorie
liriche sul Savonarola e su Robespierre, dove non c’è solo il gusto della
battuta costruita sulle più classiche delle definizioni: «Fra Gerolamo | era
piagnone | e ruppe le palle | ai palleschi»... ma il sentimento della vanità di
ogni trionfo, la caducità della sua stessa fama di riformatore e politico. A
stento, infatti, ora «I falegnami | lo ricordano | per un certo tipo | di sedie».
Ma l’aceto di Zinna sa
condire anche con garbo e misura, sia che si tratti di dire a un poeta amico di
aspettare la vera ispirazione, piuttosto che “forzare la mano” quando “non c’è
verso”, sia che si metta fantasiosamente a ricamare, sui nomi delle donne, i
molteplici e misteriosi loro
attribuiti: «Il tuo nome | è
decorativo, Ornella, | è pio, Monica,» ecc. Di semplice, ma
gustoso, vino è aspersa la terza raccolta La casarca che dà il titolo al
prezioso volumetto e sono otto liriche dove il poeta trae ispirazione da vecchi
ricordi, come avviene nelle prime due, oppure vive il presente con saggezza
disincantata, pervenendo a sublimare ogni angoscia ed ogni amarezza “nel
progetto di uno stile claustrale” di vita, nel quale il suo “fremente
rassegnarsi | alla rassegnazione” (p. 46) si placa.
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Recensione |
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