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La poesia di Angelo Di Mario evoca una malinconica cantilena dalla quale par
nascere tutto il quadro in cui s’accampano nel triste paesaggio, ognuno nella
sua solitudine disperata, gli uomini.
“…
Un randagio di vento che agonizzi il tuo nome | oggetto scaricato senza
corteccia o impronta… | Il rifiuto della vita procede inerte, | sulla bassa
scarpata della nostra amarezza | il cumulo enorme dei detriti sprofondanti…”.
E’ un ritmo cadenzato di monotonia dolente e cupa, di sapore verghiano, dove
il motivo esistenziale si intreccia, fondendosi in un gioco serrato, col motivo
dell’amore, che è qui vaga bramosia di ignoto; l’accorgersi della incoerenza del
mondo visibile (“ il rauco stridere dell’assenza del mondo ”) porta alla rivolta
contro la condizione umana sofferta e odiata, al tempo stesso. Se però Verga ci
rileva come la lotta sia già persa in partenza (infatti il destino individuale
coincide con quello storico della classe sociale a cui un uomo appartiene), Di
Mario rimane, si cala in una dimensione romantica, in cui l’uomo in potenza si
sente titanico, ma all’atto pratico è vittima, poiché non riesce ad
estrinsecarsi. Il suo subcosciente vorrebbe vivere due vite opposte o nessuna,
essere al tempo stesso quello che si è e quello che si vorrebbe essere. Vorrebbe
sentirsi elementare, ma il contrasto tra una passionalità primordiale e un
intellettualismo a volte artificioso, glielo impedisce. E in questo suo continuo
altalenarsi è preda di crisi di esaltazione e di depressione.
Ma la rivolta di Di Mario è manifestatamente di spontaneità ed espressione
compiuta della realtà di un sentimento profondo, là dove il paesaggio si apre
sulle forme più care al poeta: sugli arenili, sulle acque, sui boschi, sulle
estensioni verdi. “… Hanno tuniche campestri | l’erbe, hanno | infinite
reticenze | come i paesaggi del meridione | zittiti sotto il sole… Così il rosso
imperversa | per i balconi dell’alba | e lancia calici e aromi | nel verde folle
d’azzurro”.
Ma è solo una pausa: il continuare a vivere, nonostante tutto, è indifferente
e il senso di accettazione delle cose indica il segno più assoluto di questa
indifferenza, il cui necessario epilogo è la totale dissoluzione dell’individuo.
Non resta che “ ruggine e lotta senza nome”.
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Recensione |
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