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“Di questa vita che
mi fu donata | (o prestata comunque pagata | a un tanto al giorno) ti ringrazio
| Signore così della certezza | che quando vorrai ne sarò liberato”. Sono gli
ultimi versi della plaquette di Lucio Zinna, di quest’ultima plaquette
che appunto qui si presenta. Sono versi di ringraziamento, di un ringraziamento
laico, come tutto lo spirito delle poesie che l’autore ci offre.
Le parole sono
soffici, velate o venate di malinconia, di una malinconia però che sa essere
ironica, paludata spesso da espressioni alte che rendono il tutto
imperscrutabile, fuorviante nei voli pindarici e nelle affermazioni remote e
sibilline. Allora il ricordo può anni-darsi dovunque, allora è facile usare il
latino o il caro francese per i timbri più acuti e “la porcellana più fine” può
fare da pendant alle madeleines di Proust. È una poesia raffinata
che si sostanzia del filtrato, che ha cadenze di sogno nella memoria
appena adombrata la quale trova nella metafora il suo suggello. Gli animali più
umili allora diventano paradigmi di un vivere umano e toccano tutte le corde
dell’esistere e della pietà. La pietà che il poeta travasa appunto nel gatto Raf
o nel canarino, quella pietà che non vuole essere per gli uomini. Così Zinna
maschera il suo dolente andare verso l’altra sponda, così egli allontana
scaramanticamente la Morte, così anche se “lentamente imbianco” brinda fiero
“Prosit ai nostri eden perduti”. Così si perde nei profumi delle sue terre con
“Ottobrata panormitana” e “Granita di gelsi”, così può sperimentare con esito
felice termini desueti o neologismi, così la musicalità del verso lo fa essere
ardito con soluzioni sempre più vertiginose ma persuasive nell’assunto finale.
Abbiamo in questo modo una poesia, 24 meravigliosi testi, efficace e luminosa,
che non chiede d’esser capita nelle pieghe del suo contenuto, ma d’esser gustata
fino in fondo, per le emozioni che riesce a suscitare, per l’atmosfera magica
che crea tutt’intorno a chi legge.
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Recensione |
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