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Bonario e sferragliante tra pendii privati da cartolina illustrata disseminati di giunchiglie in fiore, è appena ripartito per l’ultima corsa il trenino svizzero di montagna. Nel villaggio deserto invaso a poco a poco dalla sera è rimasto assurdamente aperto un chiosco da Strega Marzapane. Dentro, una Parca occhialuta e segaligna, ritta dietro il bancone, aspetta da tempo immemorabile una preda: un compratore che dovrà, un giorno o l’altro, arrivare, scegliere un oggetto tra l’incredibile paccottiglia kitsch che stipa la minuscola bottega, e ripartirsene poi soddisfatto col suo bravo souvenir impacchettato sotto il braccio, magari pregustando musicali diletti dal carillon contenuto nella custodia di legno a foggia di minuscolo chalet. Poco dopo dall’ombra ecco emergere una figura umana. No, non è l’improbabile cliente: è una seconda Parca, non meno ossuta e occhialuta. Si accosta in silenzio alla sorella e socia, l’aiuta a tirar giù l’esigua saracinesca. Poi dileguano entrambe nel nulla. Intanto ha cominciato a cadere un’acquerugiola puntigliosa e tenera che certo cullerà per ore ed ore la sopraggiunta notte. Una notte qualunque. Unica, tuttavia. E che non ritornerà mai più.”Eternità d’istante”: pregnante espressione di Montale. Pienezza, assolutezza dell’attimo. La luce di stasera sul lago, luce quasi radente, obliqua, invernale, estrema. Suscita un senso intenso di esistenza, ma anche di “fermata” e insieme di “stupore”. La luce di stasera; e quella, soprattutto invernale, di Canaletto; e quella di Vermeer. La luce del tardo pomeriggio invernale ha forse una particolare carica di pathos in quanto “estrema”? La luce obliqua “sceglie” alcuni oggetti, li investe e li “rivela” in pienezza. Affascinato dalla luce dei poeti, da Dante a Petrarca, dei pittori, Caravaggio o Vermeer, in “Dove la luce” Ungaretti fissa in aura di mito il senso di immobilità sospesa (”Dove non muove foglia più la luce”), di assoluta durata (”L’ora costante”), che la luce del sole calante sembra suggerire. Nell’incontro amoroso la nostra incompiutezza non è più un limite, ma un dono, perché soltanto in virtù di essa ci completiamo nell’altro e completiamo l’altro. Benedetta incompiutezza che ci rende spiritualmente fecondi e ci consente di crescere (è un verbo logoro per il troppo uso ed abuso che se ne sta facendo, ma in questo mio febbrile scrivere, in questa urgenza di fissare, non sempre riesco a trovare espressioni meno banali). Di crescere attraverso l’altro. L’incompiutezza che può amorosamente compiersi nell’altro è più ricca di qualsiasi immaginabile compiutezza. La complementarietà fisica diventa altro, come sempre accade nell’esperienza d’amore, nella pienezza del reciproco offrirsi, nel “tendere verso”. I sessi diventano anche segni e simboli, come, del resto, ogni esperienza piena ed appassionata è insieme reale e simbolica, è immersione e trascendimento.

Comunicare è, ovviamente, parte essenziale, centrale del mio lavoro che definirei così: interpretare e comunicare interpretazioni, darne testimonianza. Il senso di ricchezza della vita deve essere non soltanto fruito, ma comunicato. Anzi: soprattutto quello deve essere comunicato. Soltanto quello, arriverei quasi a dire. Che altro è la letteratura se non uno strumento che esprime quella ricchezza? Li assaporo quei giorni “orizzontali” di tarda primavera sulla costa tirrenica; e il trepido elaborare il nuovo libro all’aperto, all’ombra folta e quieta degli alberi; e il mio dire, come forse mai prima, all’attimo fuggente: “Fermati, sei bello!”. E poi, via via, nel fluire dei mesi, l’ininterrotto colloquio con la compagna della mia vita, in quest’anno appena trascorso: colloquio diurno, notturno, di sempre, di tutto. Libero, inventivo. Invenzione nel e del quotidiano, piacere del piccolo, piacere del grande: un alito caldo, creatore, su ogni istante, su fatti ed eventi comuni, che poi comuni non sono. E’ giusto che ci siano fortissimi e pianissimi, ma poi tutto è dono. “Tutto è grazia”, concludeva Bernanos. La gratitudine, quando è possibile, la “pietas” verso la vita, quando la vita si mostra benevola e lo consente, è luce. Il sentimento poetico della vita investe il quotidiano e lo arricchisce. Non è un lusso. Può essere anzi una necessità. E va irradiato intorno a noi. Più d’ogni altro dovrebbe irradiarlo chi esercita un mestiere come il mio: insegnare è innanzi tutto “irradiare”.

Nel giorno dell’Epifania è affiorata alla memoria un’Epifania della prima giovinezza. Avevo scritto qualche verso. Allora mi capitava, qualche rara volta, senza alcun’intenzione di pubblicarli. Ce ne sono troppi e poi troppi dovunque. Sui versi pubblicati concordo con John Steinbeck quando dice che sono come le ostriche: se non sono di qualità eccellente, meglio farne a meno. La volta che mi accadeva di scriverne mi pareva di ricevere un dono straordinario e quella volta era lo splendido dono della notte dell’Epifania. Scrivere versi era segno di un raggiunto, anche se tanto precario, equilibrio e benessere. Accadeva comunemente di notte, quietatisi i rumori della vita, addormentatasi la casa. Vegliavo, ascoltando ritmi interiori che prendevano forma. La prima parola che mi viene in mente per definire quella condizione è “incanto”, la seconda è “grazia”: uno stato leggero, libero, una musica di tutto l’essere. Questo rappresentava per me, allora, l’esperienza di fare versi: paradigma di vita piena e felice, d’esistenza autentica; squarcio di luce che avrei voluto trattenere a lungo sottraendolo e sottraendomi all’interminabile catena dei giorni banali, alienati e alienanti, nei quali sentivo di sperperare il tempo prezioso di giovinezza. Un che di tenero e di sospeso, come un prodigio di lievitazione. Svegliarsi il giorno dopo, se quel prodigio perdurava, non era il solito greve e rugginoso riaffacciarsi allo stentato tran tran, ma uno sbocciare nel nuovo giorno. Mi alzavo quasi a volo, col passo dell’angelo. Era quella la vera e assaporata giovinezza che ogni tanto, troppo di rado, per dono inspiegabile, mi si accendeva dentro. Quei versi dell’Epifania evocavano un’immaginaria fanciulla (scomparsa allo sbocciare della prima giovinezza) entro un’atmosfera antica, quasi omerica, tra ancelle e compagne che, ricordandola, filavano. Commento musicale adatto, anche se proveniente da un mondo tutt’altro che omerico, sarebbe stato quello che introduce ed accompagna l’episodio di Senta, tra fanciulle che filano, nell’ “Olandese volante”, o “Vascello fantasma” che dir si voglia. “Oltre quei monti azzurri” suonava (forse un po’ leopardianamente) uno di quei mesti versi d’addio, tracciati, per mero caso, su un cartoncino azzurro. Versi azzurri, azzurra la condizione d’incanto e di grazia di quel mattino d’Epifania dei miei sognanti vent’anni. “Tempus scribendi”. Scrivere per testimoniare il senso del vivere che è maturato entro di me. E’ un modo di sentirmi vivo, lo scrivere, come lo era a vent’anni, anche se non è più l’estasi azzurra di cui parlavo nel ricordo dell’Epifania. E’, ora, una condizione meno trepida e rapita. Forse più ricca, più densa. Tutto sommato più armoniosa. Più “cosmica” nel senso del “totale”, di ancorata ad una totalità. L’assillo così difficile da esorcizzare del limite che incalza, dell’accorciarsi dell’orizzonte temporale può arricchire di sapore il vivere.

27 giugno 2007
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