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Il
poeta, si sa, è un crocevia naturale di ossimori;
il ghiaccio può ardere e il fuoco gelare, nei versi, senza chiedere conto alle
leggi della fisica, ma solo a quelle dell'immaginazione. Quando però l'ossimoro
risale dai versi all'inquadratura stessa del rapporto autore-libro, fino a
impegnarne i dettagli, allora qualche domanda sorge da sé; specie se
l'inquadratura, occasionata da un recente appuntamento curato dall'Associazione
La settima
stanza, non è
quella di un' istantanea casuale, ma vale la puntigliosa messa a fuoco di una
visione della poesia e del mondo, in un confronto col pubblico aperto e assai
stimolante. Merito di
Paolo Ruffilli, chiamato a
presentare la sua ultima fatica in versi, Le stanze del cielo,
per una chiacchierata a tutto campo sul fare e leggere poesia, di questi
"impoetici" tempi. Prendiamo in mano il libro, e ci accorgiamo subito della sua
caratteristica più evidente; l'io lirico, infatti, parla per bocca di due
distinti protagonisti, i quali descrivono in due relative sezioni le
ristrettezze morali e fisiche della loro condizione, rispettivamente, di
carcerato e di tossicodipendente.
Accanto alla singolarità della scelta, che apparenta questi testi ai motivi più brucianti di una
tradizione di canto "corale" dedicato agli "ultimi" (che in tempi di reazioni e
fronde anti indultiste è senz'altro un atto di coraggio, di cui va dato atto
all'autore), colpisce la sostanza degli argomenti che informano l'excursus
di Ruffilli oratore sulla propria poetica; tanto che viene
da chiedersi, in tutta onestà, se si stia parlando di un altro libro.
La poetica "al
servizio dell'immaginazione",
che l'autore pone con vigore al centro del suo orizzonte creativo, infatti,
innervando il rifiuto più radicale di qualsiasi "approccio realistico", qui
parrebbe davvero riferirsi ad altro; né i testi assumono "le voci degli ultimi"
per far scattare un'empatia linguistica "immaginativa" su (in)immaginabili
categorie soggettive di disgregazione del mondo, magari attraverso fenomeni di
decomposizione o frammentazione sintattica; al contrario, "le voci degli ultimi"
incamerano i registri di un canto poetico piano, tradizionale, ricco di garbate
eufonie e consonanze interne, confezionando
pillole
strofiche di denuncia
individuale e sociale, tutte di ottima fattura, compresse nel lamento a bassa
voce di un singolo campione umano, eletto a
exemplum
degli "ultimi". D'altra parte, non si può neanche definire un poetare
"realistico" quello di Ruffilli, anzi; la magmaticità del tema è filtrata nella
fictio
di una sillabazione
soggettiva di cui il poeta sembra farsi emissario, quasi per interposta persona.
Realistico, invece, ci sembra un movente più elementare e diretto, proprio
quando ricerca un'empatia coi registri inudibili e marginalizzati del sociale;
"La poesia, rispetto alla prosa, ha il vantaggio di poter essere libera di
andare dove vuole, senza condizionamenti di sorta", precisa a ragione Ruffilli.
Che a un certo punto, in un passaggio finale del
reading
in questione, rivendica di
inseguire nei versi, in fondo, "le proprie ossessioni".
Alfredo
Giuliani, nell'introduzione, sottolinea opportunamente la vocazione della
poesia di Ruffilli a portarci di volta in volta "su un terreno che neppure
sospettiamo", individuando una sorta di specifico
poetico
nell'assolvere una funzione che diremmo
etica,
prima che lirica,quella di confezionare una deviazione veritativa rispetto alla
superficie(condi)visibile e rassicurante del quotidiano; qui, disegnandole
geometrie angolose di spazi reali e abissi interiori di "pena" esistenziale. Ma
Le
stanze del cielo,
a contatto con quelle stesse ossessioni, assomigliano piuttosto a mesti cassetti
rasoterra, letterariamente impeccabili, dove si può riporre un proprio "demone"
di scrittura, trascinandovi appresso la tentazione di inarcare a dismisura, fino
allo strappo, uno sfondo di solidale, ipertrofica empatia, oscuramente
produttiva di "canto" poetico. E' una poesia che o si prende così com'è, o si
rifiuta in blocco; nel primo caso, ci si può imbattere in esempi di felicità
espressiva come
Parole:
Parole
I
giorni, i mesi e gli anni
non contano più niente:
sono parole senza senso
rimaste appese sui giornali
o i suoni sordi
che senti articolare
dal vuoto delle scatole sonore
la radio o il televisore.
Non c'è più tempo
fuori dal mondo
e senza il modo di contare
sul tuo agire nello spazio.
E poi chissà
quante altre cose
cambiate o già
finite per sempre
là di fuori...
Non sei più vivo,
eppure ti stupisci
che non muori.
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Recensione |
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