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E' l'ultima proposta
poetica di Giovanni Di Lena, il poeta di Pisticci, già noto ai lettori di questa
regione, ma anche a tanti altri in
Italia, sin da quando diede alle stampe il suo primo libro di liriche dal titolo
ormai noto di Un giorno di liberta. Poi seguirono Non si schiara il cielo,
Il morso della ragione e Coraggio e debolezza; tutti titoli emblematici di
un impegno costante a
ripiegarsi su se stesso ed a guardare fuori, nel mondo, e soprattutto a quello
della sua terra, di questa landa del sud che sembra
trasformata, ma che si trascina dietro, come una maledizione, i mali di sempre:
la povertà, l'emigrazione, l'inganno e, con questi tormenti, le sue eterne
illusioni.
Le piaghe della nostra società emergono chiare, impietose, purulente,
sanguinolente e marce insieme: si
snocciolano davanti ai suoi ed ai nostri occhi con il ritmo di sempre, ci
ghermiscono, ci stritolano, ci maciullano, sembra quasi che ci precludano ogni
via di scampo. Siamo destinati a perire. Ogni sforzo, ogni atto di ribellione,
ogni nostro grido, tutto sarebbe inutile, tutto sarebbe vano. L'individuo, nella
sua solitudine eterna, che gli deriva da secoli di sconfitte e di servaggio, non
può aprire la porta di casa; fuori, sono sempre in agguato "i detrattori",
pronti a "spargere sale ovunque"; "le terre", come un tempo e come sempre, sono
lì, pronte a "bagnarsi di sangue". Intorno a noi imperano "l'incalzante
ipocrisia" e "l'orgoglio fratricida". Si fa "solo chiasso", oggi, "sui precipizi
autostradali". I nostri paesi, Pisticci dentro se stessa.../ accantonata
nell'oblio della verità!", come Irsina, come tanti nostri altri paesi. Come
petali di rosa, i nostri migliori virgulti sono strappati via; "Giuseppe andato
al Nord", come Raffaele, come Eufemia, e "Diventa sempre più sola / Piazza
Elettra", più sole diventano Piazza Garibaldi e Piazza Andrea Costa. Ci circonda
una ragnatela terribile dalle cui "maglie slabbrate" l'esodo inevitabile.
"Logiche sovrane" ci sovrastano e vincono le nostre lotte assurde ed inutili, il
nostro grido di ribellione.
Esterrefatti, guardiamo sbalorditi "le genuflessioni / dai trasformismi
beceri...", tra "Cassa Integrazione", "Riposo Forzato" e "Industrializzazione";
in quest'ultima, "Festosa / nelle valli del grano / s'insinua / La morte". "Il
treno passa / per le nostre stazioni soppresse!", come nel cortometraggio di Salvaggiola del ventisei dello scorso dicembre. Ci hanno costretto a nasconderci
in "gallerie sotterranee", tra "mille idee senza approdo", magari "con un
cretino" a fianco, in mezzo alle "contraddizioni di questo mondo esausto", che
sempre ci fa "arrivare tardi agli appuntamenti". Il nostro è "un mare
immondo di eresie" che ci costringe a starcene rintanati nelle nostre brave case
di "cemento armato": "Troppe porte sono state serrate" e "Non solo un grido
basta / per rompere quest'embargo". Questo è il "pubblico", la prima parte della
raccolta.
Nella seconda, il "privato", sembra che il poeta si ripieghi su se
stesso, interiorizzi ancor più la sua parola, il suo gesto, la sua indagine,
come a scavare nel profondo dell'anima. Le insufficienze appaiono amarissime. Ci
si accorge che sprechiamo il nostro tempo in "inutili formalità"; vorremmo non
perderci "in estenuanti affanni", vorremmo esser lontani "dall'ignoranza
abusiva" e dai "soprusi che la convivenza" ci
"regala", vorremmo non restar sospesi "ai muri caduti" o sommersi da "questo
alveare tumultuoso". Non c'è speranza allora? Dopo aver lanciato il grido della
disperazione, quando tutto sembra ormai perduto, senza ammetterlo, e la poesia
stessa, la stessa parola a
riaccendere la speranza. Il ricordo dei "movimenti pieni di vita" della donna
amata, di quel "sorriso affrettato", di quegli "occhi allungati oltre il mare";
il "giocare con la ragione", pur "nella canicola dei giorni"; sopravvivere
"monco" al mondo, anche aspettando "ancora una risposta / dalla Valbasento";
tutto ciò getta un qualche barlume. Magari si può consumare il tempo e
confezionare "cubetti di ghiaccio", si devono ancora "schivare frecce
infuocate", però si affaccia sempre e prepotente "un desiderio / di
volare". Sarà il ricordo amaro del padre, "annullato e calpestato", della madre, il cui
sorriso "è intriso di solitudine", ma resta prepotente il desiderio di "vincere
quest'inquietudine", di evadere "dal cerchio della quotidianità". C'è la
coscienza d'esserci, sia pure "tra convenevoli di rito"; pur sentendosi "inerme"
e "derelitto", si riesce sempre a catturare "qualche sensazione", a nutrire
qualche certezza. Di Lena, insomma, riesce sempre a sorprenderci.
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Recensione |
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